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1978-2018: cosa ci ha insegnato Basaglia

Le esperienze della Casa della Carità nella cura della salute mentale, a 40 anni dall’approvazione della Legge 180 e dalla lezione di Franco Basaglia.

Se c’è un luogo, alla Casa della Carità, che può essere considerato figlio degli insegnamenti di Franco Basaglia, questo è So-Stare, la comunità alloggio nata a pochi mesi dall’inaugurazione della Casa, che accoglie persone che hanno bisogno di un periodo di cura della propria salute mentale e fisica.

Che cos’è So-Stare lo spiega meglio di tutti Victor, un giovane ospite della comunità: «So-Stare per me è casa: è un luogo in cui dormire, mangiare, lavarmi, vivere il mio tempo libero, pregare, crescere, interagire con gli altri e fare amicizia, confrontarmi con gli educatori».

So-Stare: la normalità della quotidianità

Sono le due operatrici che si occupano in prima persona di So-Stare, Iole Romano e Chiara Ronzoni, a rivendicare lo stretto legame di questa esperienza con il padre della legge 180: «Al centro dell’accoglienza a So-Stare non c’è la patologia, ma la persona nella sua interezza. La patologia non viene negata, ma non è un’etichetta, è solo uno degli aspetti della persona, che è anche tanto altro».

So-Stare gita
Ospiti e operatori di So-Stare in gita al lago


«La normalità della quotidianità, come la descrive Victor, è quello che viviamo ogni giorno con i nostri ospiti, ai quali cerchiamo di dare uno spazio in cui possano esprimere altro rispetto alla malattia. È una fatica, ma quando è superata i risultati si vedono», dicono ancora.

Tutti gli ospiti devono seguire delle regole, con una programmazione giornaliera dei propri compiti, dalla cura della propria stanza alla pulizia degli spazi comuni. Le settimane sono poi scandite da alcuni appuntamenti che aiutano a creare relazione, come i pranzi del lunedì con gli amici di Casa Elena o quelli con i volontari.

Spiega Iole: «Mangiare tutti insieme non è semplice per i nostri ospiti e quindi è una grande soddisfazione vederli a proprio agio a tavola, a chiacchierare gli altri, perché vuol dire che molte barriere stanno cadendo».

Molto importanti per la vita della comunità sono anche i momenti di socializzazione, come le gite, le feste e le visite ad alcuni ex ospiti.

Si punta poi molto sull’autonomia: fare piccole commissioni, fare la spesa, andare in farmacia o in posta. «Questo serve a noi per osservare i progressi fatti e all’ospite per capire fin dove può arrivare», dice Chiara. Importante è il ruolo del lavoro per gli ospiti di So-Stare, perché migliora la qualità della loro vita e consente a chi ha conquistato l’autonomia di non tornare indietro.

Dal bisogno emerso da alcuni di essere seguiti anche dopo le dimissioni dalla Casa, è nato “So-Stare diffuso”, per cui si continua la relazione attraverso colloqui e visite domiciliari, accompagnamento medico, legale e burocratico per far sì che non si perdano gli obiettivi raggiunti.

Proviamociassieme: superare il disagio nelle periferie

ProviamociAssieme Garofalo gruppo
Un momento delle attività nel centro di Proviamocissieme – Foto: Marco Garofalo

Proviamociassieme è un intervento di sostegno all’abitare autonomo di cittadini con disagio psichico, realizzato nel quartiere Molise-Calvairate dalla Casa della carità, in convenzione con il Dipartimento Salute Mentale e Neuroscienze dell’ASST Fatebenefratelli – Sacco di Milano.

«Il nostro intervento parte dalla convinzione che il disagio psichico prolifica laddove ai disagi della periferia urbana si sovrappongono i guasti della periferia sociale, intesa come mancanza di relazioni e legami, che provoca l’isolamento delle persone più fragili. Lenire la sofferenza di queste persone significa quindi ricreare relazioni, promuovendo incontri e conoscenza. Non solo tra le persone, ma anche tra i vari enti e soggetti che vivono e operano nel territorio, facendo rete», riassume Massimiliano Soldati, coordinatore di Proviamociassieme.

«Alla base del lavoro di Proviamociassieme c’è la costruzione e il consolidamento di reti e relazioni. Questo ha ricadute positive non solo per i singoli utenti, ma anche a livello di inclusione sociale e qualità della vita per tutti», spiega.

Negli anni sono stati tanti i modi usati per agganciare le persone; si è cominciato entrando nelle loro case, per migliorare la qualità dell’ambiente di vita: tinteggiare pareti, riparare rubinetti che gocciolano, aggiustare una tapparella sono diventati occasione per creare una relazione con coloro che faticavano a recarsi ai servizi di cura.

Insieme alle persone e partendo dalle loro esigenze si è poi costruito l’intervento sociale di Proviamociassieme, che non è mai rimasto uguale a se stesso, ma che si è evoluto proprio in base alle necessità e agli stimoli degli utenti.

Racconta Massimiliano: «Abbiamo per esempio elaborato e affinato un metodo che utilizza nel lavoro di cura la creatività, nel nostro caso la realizzazione di un film, che consente un’interazione giocosa fra utenti e operatori e facilita la costruzione di un gruppo, nel quale confrontarsi con gli altri».

Guarda il servizio di Rai News 24 dedicato a Proviamociassieme e al film “Io e L’I.A.”

Casa Elena: l’arte come terapia

Nel quartiere operaio di Cascina Gatti a Sesto San Giovanni, fortemente segnato dalla presenza di persone con problemi di salute mentale ed esclusione sociale, si è sviluppato, fin dai primi anni di Casa della Carità e in stretta collaborazione con i CPS di zona, il progetto Casa Elena.

Laboratori MigrArte Garofalo
Uno dei laboratori di arte-terapia – Foto: Marco Garofalo

Si è scelto di realizzarlo non in un luogo istituzionalmente predisposto alla cura, ma in un appartamento. Nell’ottica basagliana, si è deciso di privilegiare la dimensione dell’abitare quotidiano in chiave terapeutica.

«L’obiettivo era e resta quello di intercettare quelle persone che non riescono a rivolgersi autonomamente ai servizi di cura o che non sono pienamente consapevoli della loro sofferenza psichica», racconta la coordinatrice del progetto Serena Pagani.  



Anche per Casa Elena la persona è al centro di tutto: «Per prima cosa cerchiamo di capire dai diretti interessati che cosa gli piace fare. E dal momento che molti ospiti confessavano una comune passione per l’arte, questa è diventata il cuore del nostro progetto», spiega Serena.

Casa Elena prevede una riabilitazione basata su momenti di convivialità e socializzazione, dai pranzi insieme alle visite a mostre artistiche, fino a veri e propri laboratori di arte-terapia, che hanno consentito di migliorare l’inclusione sociale degli ospiti.

Spiega Serena: «Col tempo questa esperienza si è consolidata; ai primi laboratori di pittura, a quelli per la realizzazione di arazzi e alla terapeutica artistica, si sono oggi aggiunti laboratori di grafica e di sartoria, con produzioni molto accurate e una grande partecipazione, che ha coinvolto anche alcuni migranti ospiti della Casa della Carità. Nell’ottica della deistituzionalizzazione e dell’apertura al territorio, abbiamo infatti scelto di non chiuderci nel nostro appartamento, ma di portare l’esperienza di Casa Elena anche in altri luoghi della città».

Migranti, senza dimora, periferie: cresce la domanda di cura

L’arrivo negli ultimi anni di centinaia di migliaia di migranti ha reso necessario considerare nelle dinamiche dell’accoglienza anche la cura della loro salute mentale, in molti casi fortemente segnata da esperienze terribili nei paesi d’origine e dalla drammaticità dei viaggi nel deserto e nel mare per raggiungere l’Italia.

Per questo, la Casa è stata tra i primi enti milanesi a sviluppare, fin dal 2014, un progetto di accoglienza all’interno del sistema Sprar specifico per uomini e donne migranti con fragilità psichica, diventando un punto di riferimento anche per altre realtà.

Per rimanere nel quartiere in cui ha sede la Casa, dal 2014 a Crescenzago è attiva una collaborazione tra la Fondazione e il Dipartimento di Salute Mentale dell’Ospedale Maggiore Policlinico, sostenuta dal Comune di Milano, per garantire una migliore risposta ai bisogni di salute mentale delle persone che vivono in condizioni di grave marginalità, in una zona complessa e multietnica come quella in cui opera il CPS di zona: via Padova e aree limitrofe. 

Uno degli interventi in strada del Progetto Diogene

L’obiettivo è migliorare la qualità della vita di queste persone, rendendole il più possibile autonome nella cura della loro salute e valorizzando il territorio come luogo di cura, attraverso progetti di domiciliarità, coinvolgimento in attività di socializzazione, laboratori di musicoterapia e gruppi di terapeutica artistica.

Per prendersi cura della salute mentale delle persone che vivono per strada, fin dalla sua nascita la Casa della carità, in collaborazione con la Cooperativa Novo Millennio e le ASST di Niguarda-Ca’ Granda e San Gerardo di Monza, porta avanti il progetto Diogene che opera in modo flessibile e itinerante.

Attraverso le uscite serali delle unità mobili composte da psichiatri, psicologi ed educatori, i senza dimora possono intraprendere un percorso di cura e inclusione sociale in grado di facilitare la presa in carico da parte dei servizi territoriali. Diogene propone inoltre percorsi di autonomia e inclusione sociale con l’accoglienza presso Casa della Carità o in altre strutture.

Don Colmegna: «Con la Legge Basaglia, finalmente al centro i diritti del malato»

«Per me, che per 11 anni mi sono occupato dei primi dimessi dall’ospedale psichiatrico, vivendoci insieme in comunità, è stato naturale aprire la Casa della carità, fin dai suoi inizi, alla cura delle persone più fragili, seguendo la strada indicata da Basaglia: quella della deistituzionalizzazione, che per noi resta il tracciato da seguire per realizzare tutte le nostre attività, non solo quelle che riguardano la salute mentale», dice don Virginio Colmegna, presidente della Fondazione, ricordando i 40 anni dell’approvazione della Legge 180, che ricorrono il 13 maggio 2018.

Franco Basaglia (al centro, seduto) – Foto: dal blog “Le parole e le cose”

Deistituzionalizzazione per don Virginio significa far sì che la comunità non deleghi la sofferenza di un suo membro ad altri, ma se ne faccia carico, attivando le risorse della persona, le sue relazioni affettive e parentali, ma anche le energie della comunità stessa.

«Finalmente al centro della cura venivano messi i diritti e la dignità della persona, e non più solo la malattia. Abbattere i muri dei manicomi significava, culturalmente oltre che fisicamente, superare quei contenitori di abbandono, dove venivano chiuse e poi dimenticate le persone e le loro storie, dove la sofferenza era separata dalle relazioni vitali e di prossimità». ricorda don Colmegna.

Dopo 40 anni la riforma non è ancora compiuta

Molto è cambiato dal quel 13 maggio 1978 nella cura e riabilitazione delle persone con problemi di salute mentale, ma molto resta ancora da fare affinché la riforma voluta da Basaglia si possa dire realizzata: «A fronte della chiusura delle grandi strutture di ricovero, resta ancora incompiuta la capillare diffusione sul territorio, soprattutto nelle zone più marginali, di servizi di prossimità», sottolinea don Virginio.

Che aggiunge: «Troppo spesso, i malati e le loro famiglie sono lasciati soli ad affrontare il disagio e ancora troppo diffuso è il ricorso all’ospedalizzazione e alla contenzione. Pur essendo diventata ufficiale anche la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, le strutture che devono sostituirli, le cosiddette Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), sono poche e spesso ancora caratterizzate da un rigido approccio detentivo. Così come non sono sufficienti le strutture e i servizi specializzati nell’affrontare il disagio psichico di molti migranti. Insomma, ci sono ancora tanti muri da abbattere per Marco Cavallo».

[In apertura: Marco Cavallo, la grande scultura azzurra che nel 1973 ruppe i muri del manicomio di Trieste, dando il via all’inarrestabile processo di deistituzionalizzazione della salute mentale e alla Legge 180, in visita alla Casa nel 2015]


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