Storie

Beatriz, quando la cura è relazione

La storia di Beatriz, che alla Casa della Carità ha trovato cura e relazione

Alla Casa della Carità avere cura di chi sta male non vuol dire solo prescrivere delle medicine, ma significa anche offrire giorni più sereni alle persone che chiedono aiuto. Significa «aiutarle a stare il meglio possibile», come dice il nostro presidente don Virginio Colmegna, quando parla del significato della parola “guarigione”.

Emblematica è, in questo senso, la storia di Beatriz, una donna sudamericana di 44 anni, che abbiamo conosciuto circa due anni fa, quando si è presentata al servizio docce

Le donne che vengono a fare le doccia in via Brambilla non sono molte. Per questo Ciro Di Guida, il responsabile del servizio, ha provato subito a entrare in relazione con lei, per capire che cosa l’avesse portata a vivere per strada e come avremmo potuto aiutarla.

Dopo quel giorno, Beatriz è tornata diverse volte e ogni volta si apriva un po’ di più con i nostri operatori. In questo modo, siamo riusciti a conoscerla meglio.

Non ci ha raccontato perché è andata via dal suo Paese, ma ci ha detto che abitava in una baracca in una periferia di Milano, senza acqua e riscaldamento, con un uomo che aveva problemi con l’alcol ed era violento con lei.

Un giorno, gli operatori e i volontari delle docce si sono accorti che Beatriz non aveva un bell’aspetto. E ogni volta che tornava alle docce, stava sempre peggio. Così la dottoressa della Casa della Carità, Gaia Jachetti, è riuscita a convincerla a farsi visitare e a prescriverle delle visite in ospedale, a seguito delle quali è emerso che aveva una grave patologia al fegato.

Per due settimane, Beatriz è stata seguita e curata in ospedale. Una volta dimessa, le nostre dottoresse si sono accordate con lei per farla venire tutti i giorni, all’ambulatorio della Casa della Carità, dove mediche e infermiere l’hanno seguita e le hanno aiutata a prendere le terapie giornaliere.

Una cura che va oltre le medicine

«Insieme a lei abbiamo pensato a un percorso di cura che non si basava sulla semplice terapia. Ad esempio, Beatriz veniva all’ambulatorio per ricevere le medicine alle 11.00 di mattina. Così, ne approfittavamo per invitarla a pranzare alla Casa e offrirle una doccia calda, in modo che potesse passare in compagnia l’intera giornata, invece che stare sola per strada o nella sua baracca», racconta la dottoressa Jacchetti.

Quando le dottoresse si sono accorte che Beatriz non riusciva più ad arrivare in ambulatorio, a causa degli effetti collaterali dei farmaci, le hanno proposto di venire a vivere alla Casa e lei, con un grande sorriso, ha detto: «Si!».

Ma per la Casa della Carità la cura non è la semplice medicina da assumere per guarire dai sintomi fisici di una malattia.

Dice ancora Gaia Jacchetti: «lo stare bene dipende anche da fattori sociali come l’istruzione, la socialità, le condizioni nelle quali si vive. Per questo, proviamo a creare un clima di fiducia con le persone che aiutiamo, cerchiamo di capire se hanno qualcuno vicino, se si nutrono e come, dove vivono e con chi, come dormono, in che condizioni igieniche vivono, di cosa hanno bisogno. Per noi cura significa anche interrogarci su come far passare dei giorni più sereni alle persone che stanno molto male e si rivolgono a noi».

Beatriz non si rimetterà dalla sua malattia, ma alla Casa della Carità non è più sola. E anche questo, in un certo senso, significa guarire.

Nel 2022, le attività di ospitalità residenziale di persone in condizioni di grave marginalità sociale sono state sostenute anche grazie ai fondi dell’8×1000, che annualmente l’Arcidiocesi di Milano destina alla nostra Fondazione.

[La foto in apertura è di Ante Gudelj su Unsplash]


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