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I detenuti sono persone come noi

Da oltre 15 anni, la Casa della Carità lavora con detenute e detenuti, dentro e fuori dal carcere. Cosa abbiamo fatto e cosa abbiamo imparato? Ne parliamo con Fiorenzo De Molli.

«La Casa della Carità ha sempre abitato i confini dell’umano, il carcere è sicuramente uno di questi e quindi ci è venuto naturale occuparcene fin dai primi mesi di attività della Fondazione». Fiorenzo De Molli oggi è il responsabile del Settore Ospitalità e Accoglienza, ma lavora alla Casa della Carità fin dalla sua apertura e ricorda bene l’inizio del lavoro in carcere.

«Dopo appena tre mesi dall’apertura, nel 2005, don Virginio ha voluto sottoscrivere un primo protocollo di collaborazione con la casa di reclusione di Milano – Bollate, allora diretta da Lucia Castellano», precisa. «La prima persona arrivata dal carcere – ricorda Fiorenzo – l’abbiamo accolta il 28 maggio 2005».

Da allora, la Fondazione ha continuato a essere presente dentro il carcere di Bollate, ma anche in quello di San Vittore. Nel primo si è lavorato soprattutto per accogliere uomini e donne che avevano finito di scontare la loro pena; nel secondo ci si è attivati soprattutto per organizzare iniziative culturali per far dialogare il dentro col fuori, soprattutto con la Biblioteca del Confine.

Dopo oltre 15 anni di impegno, la Fondazione e il suo Centro Studi SOUQ ora promuovono anche degli incontri formativi sul tema, nell’ambito del percorso “Fratelli (quasi) tutti”. In occasione di questa iniziativa, con Fiorenzo ripercorriamo quanto fatto e condividiamo quanto imparato.

Quali attività sociali abbiamo svolto in questi anni di lavoro in carcere?

Fin dal 2005, gli operatori sono entrati a Bollate per incontrare chi aveva dei permessi e chi stava per uscire, ma non aveva nessuno ad aspettarlo. In questi 15 anni, abbiamo accolto molte persone in Casa della Carità una volta uscite e le abbiamo accompagnate cercando casa e lavoro. Dal 2013, l’attività si è ulteriormente intensificata, con diversi detenuti di Bollate che hanno iniziato a prestare ore di volontariato alla Casa della Carità, grazie a un fruttuoso lavoro con gli educatori della casa di reclusione e a una formazione fatta insieme all’Associazione Volontari Casa della Carità. Dallo scorso anno, le attività dentro il carcere si sono bloccate a causa della pandemia, ma ora contiamo di riprendere pian piano…

Che cosa abbiamo imparato?

Come operatore sociale, sono due le lezioni che ho tratto. La prima è che tu, da solo, non redimi nessuno. Per ottenere risultati, devi lavorare in sintonia con tutte le altre figure che si relazionano con un detenuto e fare – bene – la tua piccola parte. La seconda è che non sei un avvocato o un magistrato e che, quindi, non è tuo compito conoscere il reato commesso. Tu sei chiamato ad accogliere e stare vicino a persone che stanno pagando per i propri errori, ma, nella condivisione, la prospettiva non è il passato, è il futuro. Certo, a volte un percorso di amicizia crea le condizioni grazie alle quali, ad alcuni, fa bene condividere anche il sofferto percorso compiuto. È una scelta, che una persona compie se lo desidera, ma non è condizione per creare legami di collaborazione o di amicizia.

Fiorenzo De Molli
Fiorenzo De Molli, nel 2005 – Foto: Armando Rotoletti

Quali sono i momenti cruciali di un percorso positivo dentro e fuori dal carcere?

L’uscita è il momento più atteso, ma anche il più delicato. Detenuti e detenute rischiano di ritrovarsi in un mondo che non conoscono più, senza alcun accompagnamento. E poi dentro eri qualcuno, fuori no. Rischi di non essere nessuno. È anche una questione di identità. Per tutti questi motivi, è importante la gradualità, grazie ai permessi, e sono fondamentali dei percorsi istituzionali per casa e lavoro. In parte ci sono, in parte contribuiscono enti come la Casa della Carità, ma ancora non basta. E poi c’è una questione specifica che riguarda i detenuti stranieri.

Di cosa si tratta?

È la questione del permesso di soggiorno che può scadere durante la detenzione e rende lo straniero irregolare. Il paradosso però è questo. Fino a che resta in carcere, un detenuto straniero con il permesso di soggiorno scaduto, può fare tutto: può seguire il suo percorso riabilitativo, può lavorare in regola, può uscire in affidamento. Poi, una volta finito di scontare la pena, quando torna a essere persona libera, diventa irregolare e quindi invisibile. E tutto quel che ha fatto, perde di senso. Lo trovo straziante. E profondamente ingiusto.

C’è un episodio che ricordi tra tutti quelli accaduti questi anni?

Una volta, a un gruppo di ragazzi delle scuole medie in visita alla Casa della Carità, chiesi loro come si immaginavano dei detenuti e cosa avrebbero fatto qualora ne avessero incontrato uno. Risposero con delle descrizioni molto negative e molto stereotipate – ma molto diffuse – e dissero che sarebbero scappati o avrebbero chiamato subito la polizia. L’idea era chiara: chi sta in galera, fa paura ed è pericoloso. Non ti dico le loro facce quando rivelai loro che le due persone che mi sedevano accanto erano due detenuti, in particolare due volontari del carcere di Bollate. Lo tengo a mente con piacere perché abbiamo riso molto ma anche perché ci ricorda una cosa. Che anche i detenuti e le detenute sono persone come noi. Rendersene conto, sfidando certi pregiudizi, è tanto banale quanto sconvolgente.

Foto in apertura: Matthew Ansley on Unsplash


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