La notizia del suicidio di due giovani detenuti a San Vittore ci ha molto colpito. Abbiamo voluto riflettere ancora una volta sul tema del carcere e della pena
Fin dai primi mesi di attività, la Casa della Carità ha scelto di lavorare con il carcere, sottoscrivendo nel 2005 un protocollo di collaborazione con la casa di reclusione di Milano – Bollate, allora diretta da Lucia Castellano. Quello fu solo il primo di una serie di progetti che la Fondazione ha portato e porta tutt’ora avanti in ambito carcerario e penale.
«È un impegno a cui teniamo molto, perché siamo convinti che il carcere non debba essere solo un luogo di segregazione, dove rinchiudere chi ha sbagliato e “buttare via la chiave”. Tutt’altro. Per noi, il carcere – e più in generale la pena – deve essere uno spazio di dignità e riscatto, come del resto afferma la Costituzione italiana all’articolo 27. Per questo, investire in cultura all’interno del carcere e in spazi di confronto tra il dentro e il fuori è fondamentale, perché si mette in moto quella solidarietà che può portare all’inclusione sociale di chi, finita la sua pena, deve rientrare nella società», afferma don Virginio Colmegna, presidente della Casa della Carità.
Proprio per questo nostro impegno, la notizia, arrivata a inizio giugno, del suicidio di due detenuti di San Vittore molto giovani, ci ha molto colpito. Abbiamo quindi voluto riflettere, come abbiamo già fatto molte volte, sul tema del carcere e della pena.
In questo caso, ci siamo focalizzati sui giovani, confrontandoci con due operatrici della Casa della Carità, Cecilia Trotto e Gaia Lauri, che da tempo operano in ambito penale e post penale con ragazzi e ragazze.
LA CULTURA IN CARCERE, UNO SPAZIO DI INCONTRO E ASCOLTO
Da diversi anni, all’interno della Casa Circondariale San Vittore, la Casa della Carità, in collaborazione con l’Associazione Gruppo Carcere “Mario Cuminetti” e il Liceo Scientifico “Alessandro Volta” di Milano porta avanti la “Società di Lettura”, un progetto che, attorno alla lettura di un libro, fa sedere intorno allo stesso tavolo studenti e studentesse del liceo stesso e alcuni giovani detenuti.
Ma qual è il ruolo della cultura all’interno del carcere? Ne abbiamo parlato con Cecilia Trotto, responsabile della Biblioteca del Confine della Casa della Carità, e tra le animatrici del progetto: «La cultura all’interno del carcere – declinata in una serie di progetti, di cui la “Società di Lettura” è un esempio – dà ai detenuti la possibilità di incontrare persone nuove, che vengono da fuori e che sono interessate a dedicare loro del tempo. È uno spazio di incontro e ascolto, in un luogo dove queste due cose mancano fortemente».
La partecipazione a iniziative culturali produce poi a cascata e nel tempo dei meccanismi positivi: «Nel caso della Società di Lettura, in molte persone scaturisce la voglia di leggere, di informarsi, di riflettere sulla propria condizione, sul futuro, sulle vite e sui problemi degli altri che, anche se può apparire impensabile, possono non essere così distanti», spiega Cecilia.
Un altro aspetto interessante della promozione di iniziative culturali in carcere è quello di fornire ai detenuti, seppur per un tempo e un periodo limitati, la costanza di questi appuntamenti: sapere che il tal giorno alla tal ora c’è un momento durante il quale tutti i problemi e le sofferenze che si vivono nel carcere, che sono sempre di più e sempre più complessi, restano fuori dalla porta.
E anche quando si ripercorrono esperienze personali, lo si fa nell’ottica di trovare una prospettiva di uscita e questo porta a mettere in ordine la propria esperienza di detenzione, rendendola attraversabile. «Certo, non si risolvono tutti i problemi, ma si forniscono a queste persone chiavi di lettura nuove e prospettive diverse, che altrimenti non avrebbero», racconta ancora l’operatrice.
UNO SCAMBIO TRA DENTRO E FUORI
Ma i progetti culturali in carcere non sono importanti solo per chi vive all’interno di una struttura detentiva. Lo sono anche per le persone che stanno fuori che, partecipando a queste iniziative, scoprono che cosa c’è dentro questo luogo, comprendono che esso fa parte della città e capiscono che cosa significa vivere un’esperienza detentiva.
«E questo è importante non perché bisogna condividere la sofferenza degli altri e farsene carico per forza, ma perché bisogna sapere che i detenuti, scontata la loro pena, devono rientrare nella società. E se questa non crea, anche durante la detenzione, un rapporto diretto tra chi è dentro e chi è fuori, è impossibile pensare che poi possa accadere dopo», commenta Cecilia.
Nel caso della Società di Lettura, l’ulteriore valore aggiunto è quello di far relazionare due gruppi di giovani coetanei: «Questo incontro è aria fresca per i detenuti e tra i due gruppi si creano relazioni vere, confronti inimmaginabili. Si abbattono barriere», conclude Cecilia.
QUALE FUTURO PER I GIOVANI DOPO UNA PENA?
Gaia Lauri è un’assistente sociale e, ormai da diversi anni, è operatrice di Sm.A.R.T. 2 – Servizio Minori Ambito Rete Territoriale (in precedenza progetto Sm.A.R.T. e progetto E.T), un progetto che incoraggia percorsi di inclusione post penale, per minori e giovani adulti, italiani e stranieri, maschi e femmine.
«Con il progetto Sm.A.R.T, prendiamo in carico ragazzi che hanno finito o stanno finendo la misura penale, che nella maggior parte dei casi è la messa alla prova* e che può prevedere o meno l’inserimento in una comunità penale minorile», esordisce Gaia.
Insieme a questi giovani, si costruisce un accompagnamento educativo che tenga conto dei loro bisogni e necessità: «Per esempio se, dopo la comunità, la persona rientra in famiglia, ci sarà un’azione di monitoraggio del rientro a casa. Se invece, come accade spesso, si tratta di ragazzi che non hanno nulla, come nel caso degli ex minori stranieri non accompagnati, l’idea è quella di costruire una rete di aggancio a livello lavorativo e abitativo, prima che finiscano la messa alla prova», spiega l’operatrice.
Tanti sono però gli ostacoli che questo tipo di iniziative devono affrontare.
Per prima cosa, si tratta di percorsi ad adesione volontaria: «Inizialmente magari c’è un’adesione alta, a volte anche strumentale, perché devono arrivare all’udienza finale mostrando di aver intrapreso un percorso di cambiamento. Quando poi non c’è più la cornice penale, purtroppo, l’impegno e il coinvolgimento va scemando e come servizio non abbiamo strumenti forti per mantenere l’aggancio con questi ragazzi», spiega Gaia.
UTENZA CHE CAMBIA
Un altro tema è quello della sempre maggiore complessità delle situazioni che si seguono: «Quando abbiamo iniziato con il progetto E.T, nel 2017, le segnalazioni riguardavano soprattutto minori stranieri non accompagnati, che dopo la fase penale dovevano essere riorientati nella risposta ai bisogni primari: casa, lavoro, documenti e persone di riferimento», dice Gaia.
Che aggiunge: «Ultimamente, invece, ci sono tanti ragazzi di seconda generazione o italiani. E questi ultimi, paradossalmente, presentano le situazioni più compromesse. Perché arrivano da quartieri periferici difficili, dove c’è forte già una forte presenza di ragazzi problematici che si autoalimenta. Oppure hanno storie familiari di devianza o comunque vicissitudini di estremo disagio familiare, hanno problematiche comportamentali e sono già seguiti dai servizi per la salute mentale o per le dipendenze. Spesso quindi il periodo della messa alla prova è molto lungo».
LE DIFFICOLTÀ DEL RIENTRO IN SOCIETÀ
Uno dei problemi più gravi con cui ci si scontra, poi, è un contesto non pronto per accogliere questi giovani una volta che sono usciti dalla fase penale.
Ad esempio, c’è la mancanza di soluzioni abitative ad hoc per ragazzi appena maggiorenni e senza reti familiari attorno: «Non avendo nessuno, quando escono dalla comunità si ritrovano per strada. Magari hanno anche trovato un lavoro, ma nella maggior parte dei casi hanno stipendi molto bassi e così trovare una casa diventa per loro molto oneroso», spiega Gaia Lauri
E conclude: «Le conseguenze sono un alto rischio di recidiva o il rientro nei loro contesti di provenienza. Quindi, magari, questi ragazzi fanno un cambiamento, ma se questo il contesto non cambia, c’è il pericolo di riprendere compagnie sbagliate e ricadere negli stessi errori».
*Nella messa alla prova, su richiesta dell’imputato, il procedimento penale è sospeso nella fase di primo grado. L’imputato è quindi affidato all’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna (UEPE) per l’esecuzione, obbligatoria e gratuita, di un lavoro di pubblica utilità in favore della collettività, che può essere svolto presso istituzioni pubbliche, enti e organizzazioni di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato.