Intervista con il presidente della Casa della Carità don Virginio Colmegna, per immaginare il 2022. Anno in cui la Fondazione compie 20 anni
Con l’avvio del nuovo anno, abbiamo voluto intervistare il presidente della Casa della Carità don Virginio Colmegna, per tracciare un bilancio dell’anno appena concluso e provare a immaginare il 2022. Anno in cui la Fondazione compie 20 anni.
Don Virginio, che anno è stato il 2021 per la Casa della Carità, in un contesto ancora fortemente segnato dalla pandemia?
È stato un anno certamente complesso, durante il quale però la Casa della Carità ha avuto la capacità di affrontare le sfide che ci si sono poste davanti. Non ci si è intristiti e bloccati di fronte ai problemi, ma si è trovato lo spazio di progettare il futuro. Credo che questo sia un segno di maturità della nostra esperienza. E poi è stato un anno di consolidamento di alcuni valori e di alcune scelte: quella di partire dagli ultimi, dai resti, dalle sofferenze, dalle fragilità come orizzonte strategico di senso e come azione sociale e culturale.
Il 2021 è stato anche un anno di rinnovamento profondo. Aver intuito il percorso di Regaliamoci Futuro (il percorso di ripensamento dell’azione sociale e degli spazi della Casa della Carità avviato a inizio 2020, ndr) prima che scoppiasse la pandemia, credo sia stato apprezzato. Ora c’è bisogno che questo percorso si sedimenti al nostro interno.
Quali sono i temi sociali su cui la Fondazione sarà chiamata a operare nel 2022, in un contesto generale ancora complesso?
Il tema fondamentale, reso ancor più importante dalla pandemia, è quello di impostare politiche sociali come politiche di salute, di benessere globale, di attenzione alle persone più fragili. È il tema dell’integrazione socio sanitaria, il lavoro che abbiamo chiamato “Casa della comunità”. Questo vuol dire far sì che i determinanti sociali di salute siano messi al centro delle politiche.
In quest’ottica, andranno affrontati il tema del lavoro e della casa, sui quali si rischia una crisi che può avere conseguenze sociali gravi e profonde.
Un altro tema che ritengo di primo piano nel nuovo anno è quello della coesione sociale, con particolare riferimento ai giovani, da sempre trascurati e che ora soffrono più di altri le restrizioni legate alla pandemia. C’è un cambiamento radicale da fare su questo tema, che va rilanciato: c’è bisogno di prevenzione, di educazione, di presenza, di luoghi di incontro da costruire per e con i giovani. È una sfida che tutti avremo di fronte. Al nostro interno, sta provando ad affrontarla l’Associazione Volontari, che si sta rinnovando ed è molto vivace.
Recentemente la Casa della Carità ha incontrato i suoi garanti, sindaco e arcivescovo della città, per guardare insieme al futuro della Fondazione che quest’anno compie 20 anni. Che cosa ti porti a casa di questi due incontri?
Mi porto a casa il fatto che la Casa della Carità mantiene l’originalità di essere una realtà ecclesiale, ma calata nella vita della città.
L’arcivescovo, rispondendo alle nostre domande, ci ha riconsegnato il senso del nostro agire: «irradiare la gioia della condivisione della vita con i poveri», perché non siamo un insieme di servizi, ma «un luogo dove ristabilire rapporti affettuosi e rispettosi». Monsignor Delpini ha condiviso con noi le scelte strategiche da percorrere nel nostro cammino futuro, seguendo quelle che abbiamo definito “quattro energie”: spirituale, politica, culturale, ecologica.
Nell’incontro con il sindaco, abbiamo ricordato il discorso di Martini “Paure e speranze di una città”, che per noi è fondativo e che come noi compie quest’anno 20 anni. Abbiamo affrontato i temi dell’amicizia civica, della coesione sociale, della cittadinanza come inclusione che deve riguardare tutti gli abitanti della città. Temi che saranno fondamentali per costruire il domani di Milano. Gli abbiamo chiesto che si superi l’assistenzialismo, immettendo invece capacità di vicinanza per affrontare le sfide con la cultura della coesione sociale, delle relazioni di reciprocità. E lo abbiamo trovato dialogante.
Che cosa auguri alla Casa della Carità per i suoi 20 anni?
Le auguro di rinnovarsi continuamente, di essere una realtà che non si “istituzionalizza”. Noi parliamo spesso di “deistituzionalizzazione”; questo vuole anche dire non diventare mai conservatori dell’esistente, ma ripensarsi costantemente, mettendo sempre al centro le persone fragili, lasciandosi attraversare dalla voglia di futuro e dal coraggio della speranza.
Per me è importante che la Casa non perda la sua spiritualità profonda, che significa riscoprire il senso del perché lo facciamo. Quegli “slogan” che ci hanno accompagnato fin dall’inizio – il fiume dell’ospitalità, la pedagogia dello stare nel mezzo – devono ritornare incessantemente nel nostro agire collettivo di operatori, che ancora ringrazio per la loro qualità professionale, e volontari.