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Teoria in attesa di pratica – Ridurre l’orario per la cura della Terra, i diritti del vivente, la dignità del lavoro, l’autonomia del sindacato – di Mario Agostinelli

L’articolo di Mario Agostinelli è contenuto nel numero 22 di SOUQuaderni.

RIDURRE L’ORARIO DI LAVORO: UNA NECESSITÀ

Nell’evoluzione del panorama sociale si possono cogliere alcuni segnali, la cui novità sta nel grande rilievo e nella dimensione planetaria che in essi viene a ricoprire il tempo.

In un riemergere della dimensione politica del tempo, sotto l’impulso dei soggetti che più acutamente – da Bergoglio, agli studenti, al movimento delle donne – presentano le incoerenze e le ingiustizie in atto come la conseguenza di una sua “colonizzazione” ad opera dei poteri dominanti, colpisce il silenzio tenuto dal mondo del lavoro. È anche questo un segno della marginalità cui è ridotto un soggetto in auge nelle costituzioni di democrazia sociale del dopoguerra. Al momento, non è dalle lavoratrici e dai lavoratori che provengono né un consapevole affanno per il futuro che viene a mancare, né una critica alle velocità “sovrumane” con cui i congegni artificiali loro affidati sprecano le risorse naturali, né una manifesta ribellione per l’espropriazione del proprio tempo di vita. Irrimediabilmente, la scissione tra lavoro ed esistenza non può che costituire un carburante per una diffusione incontrastata del negazionismo.

Il tempo smisuratamente prolungato a cui si è costretti in mansioni ed operazioni eterodirette, non è né naturale né inevitabile: anzi, una eccessiva capacità trasformativa del lavoro nuoce a tal punto alla biosfera da depredarla e svuotarla delle specie viventi, fino a mettere in discussione la continuità della storia umana.

Inoltre, una programmata colonizzazione del tempo di vita all’interno di una incessante pressione tra produzione e consumo riduce spazi e tempi sociali e favorisce il trasferimento di prerogative proprie della coscienza e della soggettività umana agli algoritmi artificiali delle macchine. Si finisce con l’abitare “lontani” un Pianeta che si presenta ad ogni ora sempre più “connesso” e, nello specifico del tema qui esaminato, col rinunciare irrimediabilmente al diritto ad una “componente di autogoverno e continuità del tempo di lavoro”, declassato a prestazione a chiamata, di durata precaria, priva di autonomia. Di conseguenza, l’ambiente di lavoro ad oggi non è che uno “spazio discontinuo” entro cui far aumentare a dismisura la quantità del prodotto, incoraggiare la concorrenza tra gli addetti, favorire salari variabili, ostacolare la contrattazione collettiva. Nella trasformazione in corso della relazione tra macchinario e addetto, si può ben dire che la speculazione ad alta tecnologia, che può contare sulla elevata velocità delle apparecchiature digitali rispetto alla “lentezza” dei meccanismi neuronali e muscolari degli operatori, serve ad alimentare un lavoro fisico a limitata creatività e ridotta padronanza di tecnologia (si pensi al destino dei “fiancheggiatori” dei robot e ai rider…).

Eppure, l’aumento della disuguaglianza sociale e della precarietà del lavoro e dell’esistenza, la disuguaglianza di genere, la crisi climatica e la disponibilità finita di risorse naturali richiederebbero qui ed ora un radicale scostamento dal paradigma della produzione espansiva, dettata dalle regole della massimizzazione del profitto.

Forse la nascita del movimento mondiale di Fridayforfuture e la contaminazione tra le assemblee studentesche e nuclei di operai, impiegati, ricercatori ed insegnanti, potrebbe correggere la mancata rivendicazione, ad ora, della riduzione dell’orario nei luoghi di lavoro. Un primo timidissimo cenno di inversione è rappresentato dalla piattaforma unitaria del ccnl dei metalmeccanici, che prevede 24 ore di formazione obbligatorie per tutti, in virtù di un diritto soggettivo, disponibile anche nel caso in cui l’impresa non avanzi proprie proposte.

La tesi di seguito sostenuta è che la riduzione radicale dell’orario del lavoro a parità di salario, assieme al miglioramento della sicurezza sociale e ad una pratica di riconversione produttiva finalizzata alla cura della Terra e alla continuità di tutto il vivente che la abita, debba costituire un vincolo caratterizzante la fase storica attuale. Direi, addirittura un diritto-dovere, propedeutico ad intestare il futuro alla scelta dell’“ecologia integrale”.

(L’obiezione che una settimana lavorativa più breve non risponda direttamente o in modo esaustivo al problema dell’estendersi di forme precarie e non contrattualizzate di lavoro sarà affrontata successivamente).

CLIMA E CURA DELLA TERRA

La scienza dice che abbiamo al massimo un decennio entro cui agire in modo radicale per intervenire sul mutamento climatico ed assicurare il diritto alla sopravvivenza alle prossime generazioni. Non farlo sarebbe un irreparabile, se non delittuoso, errore: non solo politico. Credere di poterlo fare a prescindere dal coinvolgimento del mondo del lavoro e dal potere contrattuale che deriverebbe da una sua riconquistata autonomia, sarebbe, oltre che illusorio, imprudente.

Una risposta adeguata a prendersi cura di un pianeta corrotto nei suoi cicli rigenerativi non può concentrarsi nell’ottimismo di una tecnologia che presume il ristabilimento dell’equilibrio naturale ed una impossibile riduzione dell’entropia a valle dei misfatti. Il problema è assai più impegnativo: si tratta, rispetto al trend in corso, di ridurre contemporaneamente sia la quantità di materia trasformata (e possibilmente riciclabile), sia l’energia prelevata dall’ambiente, così da assicurare condizioni di riproducibilità del sistema vivente.

 Si calcola che con un orario di lavoro uguale a quello medio europeo, gli Stati Uniti ridurrebbero del 20 % il loro consumo energetico, oggi per il 74% dovuto alla combustione dei fossili.  Esistono numerosi studi per differenti aree geografiche che rivelano uno stretto legame tra orari di lavoro elevati e modelli di consumo ad alta intensità energetica, con spreco di materia, insolitamente inquinanti e, quindi, dannosi per il clima, la salute, l’ambiente. In” The Ecological Limits of Work”, Philipp Frey analizza il quantitativo settimanale di ore che in Gran Bretagna ciascuna persona trascorre sul posto di lavoro, al fine di capire come abbattere i consumi provocati dagli spostamenti per raggiungere l’ufficio, oltre a quelli industriali generati dal lavoro in sé. Ne trae la conclusione che le ore lavorate in media in settimana attualmente eccedono i livelli che potrebbero essere considerati sostenibili dal nostro pianeta. Secondo il modello di Frey, ridurre dell’1% per ogni addetto le ore lavorate, diminuirebbe dell’1,46% le emissioni di carbonio che alterano il clima. In sostanza, un minor numero di ore lavorate dà luogo ad impronte ecologiche, impronte di carbonio ed emissioni di climalteranti più basse.

Il Green New Deal, proposto e sostenuto da Alexandria Ocasio-Cortez, punta innanzitutto a ridurre le emissioni a favore dell’espansione dell’industria delle energie rinnovabili. Tuttavia, nella discussione che è seguita alle prime presentazioni del progetto, è stata messa in evidenza la necessità di collegare il miglioramento ambientale ad un intervento differenziato a sostegno delle fasce deboli, del welfare e dell’agibilità del sindacato nei luoghi di lavoro. Un’azione fiscale sulle emissioni fossili alla fonte darebbe luogo ad una ridistribuzione del gettito a sostegno della riconversione in particolare delle fasce impoverite o maggiormente esposte nella transizione. Sempre a seguito dell’apertura di un dibattito coraggioso ed imprevisto nell’America di Trump, è stato inoltre appurato che senza un minor numero di ore lavorate pro-capite ed un adeguato intervento sui servizi pubblici, oltrepassando quindi i confini del mondo industriale e riabilitando il pubblico impiego contro le privatizzazioni, la crescita potrebbe continuare, con effetti sul clima assolutamente irreparabili. Diventa rilevante anche un aumento del tempo libero e una conversione ecologica integrale nei comportamenti individuali: dal punto di vista del calcolo attuale del PIL, una restrizione dell’economia del 10% ridurrebbe le emissioni di un equivalente 10%.

Ne potremmo dedurre che, in base alla richiesta dell’IPCC di un aumento di temperatura che non superi 1,5°C, i percorsi obbligatori si concentrano nella decarbonizzazione totale dell’economia, nella riduzione drastica della settimana lavorativa, nel sostegno alla giustizia sociale.

LA SFASATURA DEI TEMPI A VANTAGGIO DEL PADRONE

Difficile, la riconquista di un “tempo proprio” quando la velocità dei processi muscolari e biochimici che regolano il comportamento umano non è minimamente comparabile a quella dei processi artificiali attraverso i quali viene elevato a potenza il lavoro: nei fatti – lo dice nientemeno che Einstein, esaminando spazio e tempo reali in base a sistemi di misurazione consueti come “regoli e cronometri” – gli orologi umani e quelli dei computer battono un tempo diverso. Senza entrare in dettagli che hanno rivoluzionato il senso comune del tempo, tra l’orologio al polso di un operatore fermo in una postazione in catena e l’orologio con cui si muovono i bit nel computer che lo controlla – o che lui “comanda” – scorrono tempi assolutamente differenti, che fanno sì che rispetto ad una operazione elementare della mente le istruzioni della macchina elettronico-digitale compiano qualche migliaio o milione di operazioni in più, guidate da un algoritmo predisposto, anziché dall’esperienza o dalle capacità del soggetto operante col proprio sistema mentale, nervoso e muscolare.

E’ come se le mani che avvitano i dadi su un blocco motore o il dito che clicca il mouse del computer; il nastro trasportatore che scorre davanti alla cassiera o la catena che scorre dinanzi al montatore; il cervello dell’operaio, i circuiti elettronici o le trasmissioni digitali, fossero sedi tutti di diversi sistemi di riferimento, che viaggiano ad alta o altissima velocità rispetto ai piedi fermi dell’operatore e, quindi, scandenti il tempo con propri orologi, più o meno lenti e non affatto sintonizzati sul tempo dell’orologio immobile, che leggiamo appeso al muro dell’officina o dell’ufficio.

Oltre a quanto sopra descritto, se vogliamo analizzare qualsiasi processo lavorativo, dobbiamo anche riflettere sul fatto che ci stiamo occupando di persone (operaie/i, infermiere/i, insegnanti etc.) per le quali non tutto il tempo in cui vivono diventa cosciente, anche se entra a far parte della loro esperienza mentale ed esistenziale. Una parte di esso viene “compressa”, resa inconscia per non intasare i meccanismi basilari della sopravvivenza. La compressione inconscia del tempo che intercorre tra esperienza sensoriale e la coscienza che se ne rende conto, non è percepita dalla nostra mente, ma dura almeno mezzo secondo: cioè, si diventa consapevoli mezzo secondo dopo. 

Nel concreto, non solo il mondo esterno obbedisce ai giri delle lancette e ai regoli di Einstein, che si rallentano o accorciano in base alle velocità relative che stanno rilevando, ma viene percepito attraverso una ulteriore mediazione biologica. Il senso del tempo che ci perviene è pertanto un intreccio di razionalità, memoria, senso del corpo, affettività, per niente coincidenti con i tempi delle macchine, quando queste vanno ormai alla velocità della luce. In un tale sistema – che è la norma in un “ambiente di lavoro” in senso lato, eterodiretto (vale anche per le consegne a domicilio…) – la simultaneità soggettiva diventa meramente un’interpretazione cerebrale, non un segnale fisico del mondo esterno e il dominio del tempo passa alle macchine e agli algoritmi che le governano, perfino alle app in visione al dipendente. La scissione tra tempo di lavoro e tempo di vita si va così facendo sempre più irreversibile e sempre più intrinseca all’esperienza delle nuove generazioni.

Si può, per completezza, dare una misura delle sfasature tutt’altro che irrilevanti cui abbiamo fatto cenno: mentre la fisiologia muscolare permette spostamenti a 10m/s, la meccanica ci conduce a soglie tra 300 e 400 m/s; in ogni caso la corrente nervosa (250m/s) è ben lontana dalla velocità della luce (300.000 Km/s) ed è paragonabile a quella del suono che la supera di poco (360 m/s).

È come se, attraverso l’apparato tecnologico appositamente progettato, venisse creato del tempo in più, donato all’azienda, al “padrone” che ha progettato e introdotto a questo fine l’apparecchiatura artificiale più consona allo scopo, e venisse altresì sequestrato un tempo in meno per l’informazione e la conoscenza dell’operatore. Si tratta, in conclusione, di un guadagno di tempo non riconosciuto in alcun modo alla/al dipendente e tradotto in maggior spreco di risorse naturali. In un contesto così alienante, sembriamo non accorgerci e non avere rivendicazioni da esigere: tutti noi abbiamo sperimentato senza scandalo viaggi in treno in cui il vicino di scompartimento, che ha già “timbrato il cartellino”, continua a lavorare alacremente col suo smartphone collegato al server dell’azienda.

È per tutto questo che con la massima urgenza si deve ripensare radicalmente il lavoro, la sua durata e la sua organizzazione, scegliendo la via della cooperazione e dell’integrazione tra componente manuale e intellettuale, dando accesso alla formazione di base non di meno che alla formazione specialistica, retribuendo ore di studio durante l’orario di lavoro, rendendo trasparenti i processi e mettendo a disposizione della contrattazione collettiva (parliamo del contratto nazionale di lavoro!) il confronto a priori sugli investimenti e i prodotti e la loro valenza ambientale, oltre alla scelta degli algoritmi e delle piattaforme software di cui la prestazione lavorativa si dovrà avvalere.

L’OBBIETTIVO DELL’OCCUPAZIONE

La prospettiva di una inoccupazione strutturale, unita alle considerazioni su natura e clima, rende ancor più urgente una rivendicazione sull’orario.  Nei “sogni” di certa impresa 4.0 si è affacciata l’ipotesi di una tale eliminazione di posti di lavoro produttivi da avere per la prima volta una figura antropologicamente inedita, strutturalmente non necessaria che tenderà a comprendere la maggioranza della popolazione. Questa situazione cambierebbe tutto. Il problema non sarebbe più quello classico dello sfruttamento, ma l’alienazione e la marginalità di chi viene espropriato della propria capacità lavorativa.

In effetti, le tendenze dell’industria moderna indicano nell’automazione la possibilità “tecnica” di ridurre il lavoro umano, a parità di produzione. Al contrario, risparmio, rinnovabili e conservazione dell’energia sono, allo stato attuale, tra le rarissime opzioni che accrescono le occasioni di lavoro stabile sotto il profilo produttivo. Per modificare una tendenza che difficilmente potrebbe procedere in assenza di fonti di energia ad alta intensità, occorre imporre linee di riconversione dei processi, oltre che dei prodotti ed un’azione politica accompagnata da una contrattazione d’anticipo che entri nel merito sia delle finalità che dell’organizzazione del lavoro. Così come senza il senso della successione temporale non sarebbe possibile la sequenza delle lettere e delle parole del linguaggio – né sarebbe possibile la musica – va ricercato e conquistato un senso ed un fine del lavoro, intervenendo con autonomia sulla sequenza dei processi manuali e intellettuali attraverso cui viene divisa e sequestrata la cooperazione sociale. Qui gioca un ruolo molto rilevante, come accennato, il discrimine tra fonti fossili e naturali, in netta opposizione tra loro per gli effetti prodotti sulla compressione o dilatazione del tempo.

Tutti gli studi sulla decarbonizzazione e sulla sufficienza energetica accennano e quantificano posti di lavoro decorosi, salari adeguati, condizioni di lavoro sicure, sicurezza e diritti per i lavoratori.  La Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile ha presentato su Sbilanciamoci una proiezione sui prossimi cinque anni nel nostro Paese, che per ogni euro di investimento pubblico ne attiverebbe altri tre privati, con un rilevante incremento di unità di lavoro cumulate, pari a ben 2,2 milioni che, con l’indotto, arriverebbero a 3,3 milioni di posti. In dettaglio, i settori sono quelli delle rinnovabili, dell’economia circolare, dell’agricoltura e della mobilità sostenibile, della rigenerazione del patrimonio urbano e naturale.

Lasciando la manifattura, per passare agli organici del settore pubblico, c’è da restituire lavoro qualificato ad intere fasce di operatori costretti a barcamenarsi in lavori saltuari e precari, provocando anche un’influenza positiva sulla dinamica della domanda aggregata. Nel settore pubblico una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro per via legale porterebbe benefici immediati.

Spesso si argomenta attorno ad una conclusione affrettata e scorretta: che cioè la riduzione di orario non abbia efficacia nelle fasce di precariato. Abbiamo, non a caso, messo in rilievo il rapporto stretto tra riduzione, autonomia, controllo della velocità e dell’intensità, riappropriazione di autogoverno nell’organizzazione del lavoro. La frammentazione del processo produttivo e della offerta dei servizi, svincolata da forme di controllo, è all’origine di fenomeni di intensificazione dei ritmi di lavoro al di fuori anche e soprattutto dei settori più tradizionali. E non è un caso che sono proprio i comparti che svolgono una funzione di raccordo tra la produzione e il consumo quelli dove si concentrano con maggiore evidenza fenomeni di sfruttamento del lavoro, di precariato selvaggio accanto all’allungamento della giornata lavorativa. La riduzione dell’orario, proprio per la sua natura di controllo sul comando dell’organizzazione del lavoro, riuscirebbe ad interrompere a monte i meccanismi di esternalizzazione e la formazione fuori controllo delle filiere produttive. In tal modo, insieme ad un potenziamento del contratto nazionale come fonte di solidarietà intercategoriale e trasversale al mondo del lavoro, vi sarebbe la possibilità di riscoprire anche strumenti di protagonismo dei lavoratori e delle loro rappresentanze nel comando dei processi produttivi e nella scelta autonoma dei modi e dei contenuti della produzione.

SALUTE E MALATTIA MENTALE

In una notissima dispensa di Ivar Oddone per la FIOM trent’anni orsono, si affermava che un lavoro dignitoso migliora la salute mentale e svolge un ruolo protettivo contro i comuni disturbi mentali, come l’ansia e la depressione. Negli anni più recenti si è verificata una tendenza generale al ribasso dei giorni di malattia generale, mentre quelli relativi alla salute mentale sono leggermente aumentati (Farmer e Stephenson, 2017).

Il superlavoro è il motivo principale della malattia sul lavoro. Qualsiasi forma di superlavoro ha un impatto negativo sulla salute mentale

Un modello di lavoro e salute mentale attento agli aspetti benefici dovuti ad immissioni di creatività, assieme a risultati di risparmio bioenergetico a seguito di bioritmi rallentati, porta a considerare gli orari di lavoro più lunghi come responsabili di esposizione a fattori di stress che riducono il tempo necessario per il recupero (Bannai et al., 2014). La mancanza di tempo al di fuori del lavoro per recuperare, può prolungare la cattiva salute mentale e ostacolare il recupero, creando una resistenza persistente ai risultati di cura.

Esistono legami molto più forti tra il superlavoro e la salute mentale delle donne. Le donne al lavoro hanno il doppio delle probabilità di avere un problema di salute mentale diagnosticabile rispetto agli uomini (NHS Digital, 2016). Indipendentemente dalle ore trascorse in un’attività lavorativa o dall’onere della manodopera non retribuita, la sensazione di pressione del tempo è più fortemente associata a una salute mentale peggiore per le donne (Strazdins et al., 2015). Queste considerazioni sono documentate nei particolari nella pubblicazione di Authonomy, (Gennaio 2019). Occorre notare che i lavoratori malati sono notevolmente sovra-rappresentati nel settore pubblico. Si conferma quindi che l’introduzione gestita strategicamente di una settimana lavorativa più breve per i lavoratori nel settore sanitario potrebbe migliorare lo standard di assistenza ricevuto dai pazienti.

IL LAVORO DEI RIDER E DEI LAVORATORI DELLE CONSEGNE

Come estensione di alcune considerazioni dei paragrafi precedenti, introduco – con una certa approssimazione – una descrizione dello stato dei lavoratori delle consegne, che traggo da articoli analitici, per lo più tedeschi e statunitensi e assai meno da esperienze dirette.

Negli Stati Uniti l’industria della consegna di cibo online vale 8 miliardi di dollari all’anno, un numero che dovrebbe triplicare nei prossimi quattro anni. Milano è sulle orme di questa espansione. Il lavoro dei rider incomincia a non essere più un lavoro solitario: i corrieri sono spesso divisi l’uno dall’altro per lingua. Sempre in viaggio, lavorano per diverse combinazioni di app, rendendo l’esperienza di ogni persona leggermente diversa. Ma c’è una comunità informale mantenuta nei momenti in cui attraversano i percorsi fuori dai ristoranti e negli hub – come a Saronno o Piacenza  o in alcune piazze o slarghi di ritrovo informali a Milano- dove si radunano sui marciapiedi e sui gradini durante la pausa, rilassandosi ma anche confrontandosi.

A New York si tratta di lavoratori immigrati regolarmente compensati con una retribuzione base giornaliera di $ 20–40, indipendentemente dal numero di ore di lavoro, che è generalmente da dieci a sedici. Capita che viaggino lavoratori privi di documenti, che non possono accedere alle app perché quasi tutte richiedono che i corrieri si registrino. Le mie informazioni a livello locale riproducono scenari analoghi, con protezioni e salari un po’ più elevati: 7,50 € lordi all’ora, con un mensile di circa 850 € inferiore di 700 € (-45%), rispetto alla retribuzione mensile media in Italia. 

Il profilo più elevato e la consapevolezza delle pubbliche relazioni delle nuove società di app riducono alcuni dei peggiori abusi del lavoro e offrono il potenziale per salari migliori, ma ne formalizzano anche la precarietà: i corrieri sono classificati come appaltatori indipendenti piuttosto che impiegati, il che significa che il concetto stesso di violazione del lavoro non si applica. Ci sono momenti in cui le app offrono bonus che rendono possibile un salario di $ 20 all’ora. Poiché i guadagni sono esenti dai requisiti minimi salariali, tuttavia, variano molto.

Le app principali compensano tutti i corrieri in modi leggermente diversi, ma gli elementi essenziali sono gli stessi. Ogni ordine prevede un piccolo pagamento in base alle miglia percorse, ai minuti spesi per la consegna e, talvolta, a una tariffa fissa per consegna. I corrieri traggono la maggior parte dei loro soldi da suggerimenti e bonus offerti dall’app come ricompensa per il completamento di un determinato numero di consegne. Il livello di abilità richiesto per guadagnare più dei salari sub-minimi è dimostrato ogni volta che un principiante ne dà prova sul posto di lavoro.

I corrieri possono affermare un certo controllo decidendo quali ordini accettare e rifiutare, dove lavorare, quando lavorare e per quali app lavorare per realizzare una certa misura dell’indipendenza che questo tipo di lavoro di concerto dovrebbe offrire. Ma i bonus extra rivelano anche che la tanto decantata flessibilità del lavoro è insignificante, poiché il risultato complessivo è che i corrieri consegnano più ordini che singolarmente vengono pagati di meno.

Quando i salari orari sono variabili e i lavoratori si sentono responsabili dei propri guadagni, è difficile determinare se viene erogato un salario equo o se i salari diminuiscono nel tempo.

Un modo ovvio per rendere i pagamenti più coerenti e ridurre lo stress sui corrieri sarebbe quello di riclassificarli come dipendenti, che, oltre a garantire il salario minimo, garantirebbe loro i diritti fondamentali del lavoro. Ciò li renderebbe idonei per gli straordinari, la contrattazione collettiva, i giorni di malattia, l’assicurazione per i lavoratori e l’assicurazione contro la disoccupazione. Tali benefici sono cruciali nel settore delle consegne perché il lavoro è pericoloso. Gli addetti alle consegne sono particolarmente vulnerabili a causa del loro elevato chilometraggio e della pressione del tempo che devono affrontare, il che li incoraggia a guidare con meno cautela di quanto potrebbero altrimenti. L’assicurazione di disoccupazione sarebbe un altro vantaggio prezioso, perché i lavoratori vengono regolarmente licenziati con poche spiegazioni via e-mail.

C’è un inconfessato guadagno ad avere alle dipendenze di una app un “lavoratore-imprenditore di se stesso”: il vero valore che gli investitori vedono in queste società sta nei dati che stanno accumulando con il lavoro di consegna visionato online. Il lavoro di gruppo genera dati sulle abitudini dei clienti, ma anche sulla logistica urbana: percorsi, tempi di trasporto, ingorghi, incidenti. Questi dati possono essere utilizzati e venduti in molti modi.

LAVORATRICI E LAVORATORI: UNA RESPONSABILITÀ IRRINUNCIABILE

Mentre il tempo sta diventando “sito” politico per più soggetti e movimenti della società, proprio i ritardi nella descrizione dei processi reali sui luoghi di lavoro ha portato a sottovalutare il ruolo che il sindacato potrebbe assumere in un quadro di alleanze ed obbiettivi convergenti con altri soggetti, nel caso in cui finalmente ponesse al centro la riduzione di orario.

In base a quanto fin qui argomentato, appare necessario che l’enorme “dividendo” che si ottiene a spese della natura e del lavoro nella nuova organizzazione su scala temporale e spaziale della produzione, debba essere restituito dal capitale alla natura, conservando e rigenerando l’ambiente e distribuito tra i lavoratori con la riduzione generalizzata e politicamente assicurata dell’orario di lavoro.

Data l’asimmetria oggi esistente tra capitale e lavoro occorre farsi carico in piena consapevolezza del fatto che, senza una ripresa della forza organizzativa, dell’unità e dell’autonomia di tutto il lavoro dipendente e autonomo e senza una coscienza delle implicazioni generali e drammatiche del protrarsi di un eccesso di capacità trasformatrice dell’energia e della materia disponibile sul pianeta, sarà ben arduo porre in primo piano la rivendicazione della riduzione generalizzata a parità di salario. Tuttavia, esso diventerà sempre più auspicabile e si imporrà politicamente se le mobilitazioni per il clima, la giustizia di genere, la cura del vivente e della Terra – oggi giunte a dimensioni mondiali – cominceranno ad avvalersi del sostegno e del protagonismo di lavoratrici e lavoratori. La rivendicazione di una settimana lavorativa più breve, a sua volta, è indispensabile per la dignità del lavoro, la salute e il buon vivere, l’autonomia stessa del sindacato – oggi frequentemente marginalizzato – e offre condizioni più favorevoli per la parità tra i sessi anche sotto il profilo del diritto al tempo proprio.

Azzardo un’ultima considerazione: in tempi di crisi, ma di ostinata e mantenuta perimetrazione della platea dell’1%, che conta in quanto a ricchezza come il restante 99% della popolazione, le risorse per un progetto simile potrebbero provenire proprio dall’inversione delle tendenze più distruttive dell’equilibrio sociale ed ambientale, mettendo a controllo la velocità e applicando prelievi fiscali sia sulla speculazione finanziaria, sia sul patrimonio, sia sulle emissioni di climalteranti, sia sull’impiego sostitutivo di robot: tutti casi che si avvalgono della “compressione artificiale del tempo” di cui si è ulteriormente impadronito il capitale, sottraendosi ed esentandosi da ogni accenno di imposta o di prelievo sociale a carattere realmente progressivo.

[Foto in apertura: Brett Jordan su Unsplash]


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