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Interventi educativi in ambito penitenziario: (a)simmetrie tra dentro e fuori – di Roberto Bezzi

Interventi educativi in ambito penitenziario: (a)simmetrie tra dentro e fuori – di Roberto Bezzi

Direttore Area Educativa della II Casa di Reclusione di Milano-Bollate e docente Università degli Studi di Milano Bicocca

Premesse, categorie e stereotipi

Un tema complesso come quello della detenzione chiama in causa approcci diversi da un punto di vista disciplinare (pedagogico, sociologico, giuridico, ecc), ma prima ancora sollecita aspetti emotivi, culturali e ideologici, premesse necessarie per comprendere anche gli sguardi delle professionalità che operano all’interno del sistema penitenziario che non sono esenti da tali suggestioni.

La funzione della pena1 (e non del carcere, non essendo i due concetti sovrapponibili, nonostante la percezione comune) è sancita in primis dalla carta costituzionale e la normativa penitenziaria, assorbendo il principio costituzionale, costruisce un sistema per rendere possibile il raggiungimento della finalità rieducativa (verso la quale la pena deve tendere).

Vi sono poi altre funzioni, non esplicite, che vengono attribuite alla pena (detentiva) e che sono in contrasto con la previsione costituzionale: quella della vendetta pubblica e la funzione simbolica di differenziazione identitaria (identificazione del cattivo).

In merito alla prima (Bortolato, Vigna, 2020), è del tutto evidente, quanto alla detenzione (quale esito di processo penale) venga attribuita quella capacità di vendicare il danno, chiedendo allo Stato di sostituirsi al privato cittadino e l’opinione pubblica (che pare disinteressata all’esito finale di tale trattamento) chiede maggior vigore nel “vendicare” il danno, talvolta evocando pene corporali, quelli che Foucault chiama supplizi (Foucault, 1976), che vennero criticate e superate grazie alle posizioni illuministiche, che hanno colto l’esigenza di distinguere il boia dal condannato.

Il carcere, con la sua costruzione imponente e nascosta dal muro di cinta ha, inoltre, una funzione fortemente simbolica di separazione tra il mondo dei buoni (quelli che stanno fuori) e quello dei cattivi (i detenuti), in una visione, ingenuamente semplicistica ma tranquillizzante, poiché segna una netta demarcazione tra le due appartenenze sociali e identitarie. Questo processo aiuta i buoni a rimuovere le parti negative di sé, anche se sappiamo che «l’uomo primitivo pensava che una parte della luna scomparisse quando diventava invisibile. Oggi, grazie alla scienza moderna, sappiamo che quando una parte della luna non è visibile, è solo perché è in ombra: ma non può scomparire completamente» (Simon, 1997 pag. 17).

I mezzi di comunicazione, in un processo di omologazione culturale (di pasoliniana memoria) incrementano la paura (che cresce nonostante la decrescita dei reati violenti) e sollecitano politiche di tolleranza zero, che vedono la detenzione come risposta unica ed efficace (anche tale dato non è corroborato dalle ricerche sulla recidiva) ai maggiori problemi sociali, in una sorta di «cortocircuito emotivo che lega l’inquietudine alla criminalità [e che] ha spesso effetti distorcenti anche sul piano cognitivo: ne deriva che ogni forma di criminalità viene avvertita come sempre più diffusa e sempre più violenta» (Ceretti, 2018, pag. 27).

Il rapporto tra il cittadino e il carcere, per lo più assente, poiché vissuto come così lontano da non essere “pensato”, prende forma in modo evidentemente emotivo, poiché chiama in causa qualcosa di non controllabile (e quindi di ansiogeno). Tale processo costruisce stereotipi che possono orientare il comportamento quotidiano, al fine di prevenire il rischio di vittimizzazione (alcuni tratti distintivi, l’appartenenza a gruppi sociali ed etnici, ecc).

Proprio la necessità di utilizzare il processo mentale della categorizzazione porta alla costruzione di immagini stereotipate (e quindi a pregiudizi), che nel rapporto con il mondo del carcere trovano una delle massime espressioni e queste immagini non lasciano esenti nessuno, quindi neanche chi, per ragioni ideologiche, per interesse professionale o per filantropia, al carcere si avvicina.

In questo perimetro tematico, anche l’operatore penitenziario rischia di entrare in un processo conoscitivo orientato da stereotipi: il reato che definisce la persona nella sua interezza (e pertanto si creano diversi rapporti anche in base al titolo di esecuzione), il rapporto con la colpa (più o meno intenso anche in base alla posizione che il detenuto assume nei confronti del capo di imputazione), la sensazione di conoscere la persona attraverso alcuni dati relativi alla sua provenienza, il rischio di approcci che oscillano tra l’assistenzialismo e il mero potere sull’altro (tanto appagante quanto acuito da contesti chiusi e prisonizzanti). Per l’operatore penitenziario, che dal dentro deve (o dovrebbe) proiettare verso il fuori il proprio intervento, la consapevolezza dei vincoli e dei processi mentali sopradescritti è necessaria ma non scontata.


1 –  Art 27 della Costituzione, al III comma recita “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del reo”.

La relazione in carcere: un rapporto tra adulti?

La relazione tra educatore e detenuto è (o dovrebbe essere) una relazione tra due persone adulte, con la differenza di ruolo e la conseguente «asimmetria riguardante la consapevolezza e la responsabilità della relazione educativa» (Tramma, 2008, pag. 94) e anche tale – ovvio – assunto, non appare scontato, soprattutto in un ambiente, come quello del carcere, che rischia, con le sue prassi e il ruolo passivo dell’utenza, di infantilizzare la persona e di renderla un oggetto “gestito” dall’amministrazione penitenziaria.

Si ritiene, invece, inderogabile, per gli operatori riconoscere l’altro nella sua adultità, pur opacizzata dalla «crisi identitaria e progettuale» (Oggionni in Cornacchia, Tramma, 2019, p. 232) che il trauma della detenzione provoca e questa è la condizione per avviare una relazione – in qualche modo – educativa e per adempiere a quanto l’ordinamento penitenziario prevede2.

Infatti, in tema di osservazione e trattamento – i due cardini dell’attività educativa – l’art .13 della legge, come oggi formulato, si compone di due distinti commi. Nel primo si legge «il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto, incoraggiare le attitudini e valorizzare le competenze che possono essere di sostegno per il reinserimento sociale». Nel secondo: «nei confronti dei condannati e degli internati è predisposta l’osservazione scientifica della personalità per rilevare le carenze psicofisiche o le altre cause che hanno condotto al reato e per proporre un idoneo programma di reinserimento».

Si tratta, quindi, di due focus differenti – antitetici all’apparenza ma complementari nella sostanza – cioè di attitudini/competenze versus carenze ma queste ultime, talvolta più evidenti delle prime, rischiano di essere unico oggetto di attenzione.

Riconoscere al detenuto delle attitudini – e incoraggiarle – significa avere con la persona un approccio non direttivo, che lascia spazi di autonomia e che cerca di assecondare le aspirazioni dell’altro, così come riconoscere le competenze – e pertanto valorizzarle – restituisce al detenuto la sua adultità che si è costruita attraverso esperienze private e all’ esterno, in linea con i principi dell’apprendimento andragogico di Malcom Knowles (Knowles, 2008).

Al contrario, gli operatori spesso si concentrano sulle carenze, sulla parte non funzionale, con il rischio di patologizzare la persona – con la sineddoche reato/persona – e quindi di perpetuare processi di stigmatizzazione, spesso concause degli agiti devianti, senza tenere conto che «al di là delle cause a monte, l’attenzione prioritaria dell’operatore dell’aiuto va orientata a valle, sulla condizione della persona che corre forte il rischio di non essere più considerata per ciò che è ma solo per fattori esterni che non fanno che aggravare la sua già difficile situazione» (Musaio in Musaio, Coarelli, Di Profio, 2020, p. 25).

Modificare lo sguardo significa accettare che nelle biografie, complesse e spesso drammatiche, dei detenuti convivano potenzialità e carenze, condizione peraltro comune all’adultità in genere, e da ciò modificare il rapporto con l’altro, già fortemente connotato dall’assenza di una libera adesione. Talvolta le prassi penitenziarie vedono l’operatore decidere per il detenuto, in una dimensione che lo mette sul piano di fare sull’altro o al posto dell’altro, anziché con l’altro, prerogativa dell’intervento educativo.

È necessario, per tentare di modificare il paradigma, riconoscere la possibilità di cambiamento a se stessi prima ancora che all’altro, esercitando la capacità di mettersi in discussione e ciò è strettamente connesso con la capacità di riconoscere alla condizione adulta la possibilità di permanere nell’educazione, superando visioni dell’adultità come punto di arrivo e di maturità immutabile.

In questo senso «la stessa espressione “educazione degli adulti” è alla lettera un’espressione ossimorica: se l’educazione è crescita, sviluppo, maturazione e se l’adulto è colui che è cresciuto, sviluppato, maturato» (Marescotti, 2020, pag. 50), ma proprio perché il cambiamento – o la possibilità di cambiamento – permane per tutto l’arco della vita, è essenziale attribuire questa competenza anche alla persona reclusa.

Se è vero che «la trasformazione non può essere “provocata” dall’educatore, ma deve essere intenzionale, argomentata e criticamente meditata» (Biasin, 2015 pag. 9) dalla persona, nelle storie di vita contrassegnate da scarse opportunità di emancipazione culturale, l’educatore può svolgere il ruolo di facilitatore, di colui che crea la condizione affinché la persona sviluppi in modo autonomo una trasformazione, ricordando che «l’utopia possibile di una rieducazione autentica passa attraverso la possibilità di fare esperienza di partecipazione democratica» (Taraschi 2020, pag. 43). Promuovere nell’altro lo sviluppo di senso critico e non addomesticarlo significa avere uno sguardo che mira al fuori e non si limita a strategie di governance penitenziaria.


2 – Legge 26 luglio 1975, n. 354 “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”.

Operare all’interno, guardando fuori

La pena detentiva, per potersi configurare come tendente alla rieducazione, deve gradualmente preparare il detenuto al rientro in società e per tale ragione gli interventi educativi mantengono – o dovrebbero mantenere – sin dall’avvio dell’esecuzione della pena, uno sguardo verso l’esterno.

Questa prospettiva deve caratterizzare la fase intramuraria, quindi anche l’organizzazione degli istituti, con la finalità di valutare la possibilità di una rimodulazione graduale dell’esecuzione penale, attraverso percorsi di decarcerizzazione monitorata con la proposta di fruizione di benefici.

In merito alle regole, ai tempi e, più in generale, al clima, la normativa penitenziaria prevede che la vita all’interno deve o dovrebbe ricalcare il più possibile la vita all’esterno, anche nell’organizzazione della giornata, nella strutturazione delle attività e, non a caso, tra gli elementi del trattamento sono esplicitamente ricompresi i rapporti affettivi e i contatti con il mondo esterno.

Un esempio riguarda il lavoro, elemento cardine del trattamento e attività che accomuna la condizione adulta, endogena ed esogena. L’ordinamento penitenziario prevede all’art 20 III comma che «l’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale».

Al di là della reale fattibilità o adesione alla suddetta previsione, tutti gli operatori devono partecipare alla realizzazione di quel processo di normalizzazione del carcere, istituzione che si caratterizza, all’opposto, per la sua singolare peculiarità.

Il principio psicocriminologico che informa queste previsioni è la necessità di lenire gli effetti negativi che l’isolamento detentivo può produrre sulla persona e tutti gli operatori devono ispirarsi a tale principio, in primis  nel mantenimento dei rapporti affettivi.

Si deve fare in modo che non si interrompano quei legami affettivi essenziali per la vita emotivo-psichica della persona e che ne definiscono l’identità sociale, come l’esercizio di alcuni ruoli: compagno/a, marito/moglie, padre/madre e per coloro che non hanno familiari sul territorio – ad esempio alcuni cittadini stranieri – di costruire una rete sociale, attraverso l’importante opera del terzo settore e del volontariato, un ambiente che funga anche da contenitore affettivo.

Negli interventi legati al mantenimento dei rapporti con la famiglia – per i quali sono esplicitamente previsti colloqui visivi e colloqui telefonici – gli operatori dell’area educativa devono far fronte anche a quei contesti che sono al contempo necessari per il benessere della persona ma anti emancipativi in termini educativi. Infatti «gli operatori dell’educazione […] si trovano di fronte a un complesso intreccio di elementi e comprendono che non sarebbe possibile, né lecito, chiedere o suggerire un divorzio emotivo dalle persone di riferimento, pur sapendo l’effetto nefasto in termini criminogeni delle stesse» (Bezzi, 2019, pag. 83).

Ma nella preparazione al rientro nella società, con una prospettiva potenzialmente diversa da quella pregressa, appare fondamentale dotare il detenuto di quella strumentazione necessaria a riprendere lo status di vero e proprio cittadino. Non si tratta soltanto di aver appreso un’attività lavorativa o di avere un’opportunità di assunzione ma anche di (ri)acquisire un’identità amministrativa, attraverso i documenti necessari per la vita nella società libera (tessera sanitaria, documenti, residenza).

La detenzione sospende la vita reale, creando maschere difensive utili all’adattamento alla condizione artificiosa del dentro e si tratta di un passaggio, come molti momenti cruciali dell’esistenza adulta, che potrebbe avere una notevole ricaduta educativa sullo sviluppo della persona, sono infatti «di particolare importanza i concetti di soglia, limite, varco che visualizzano – idealmente e materialmente – i momenti di passaggio, preparazione adesione o attraversamento che conducono alla fine della transizione» (Biasin in Cornacchia, Tramma, pag. 98).

Più ampia è la transizione – in termini di tempo e di traumatizzazione – più complessa e delicata ne è la conclusione e per questo appare indispensabile che, nella preparazione al ritorno alla vita in ambiente esterno, siano proprio gli operatori ad avere piena consapevolezza dello sguardo verso il fuori.

Il carcere, con la sua dimensione centripeta e la gestione perennemente emergenziale, induce lo sguardo degli operatori al dentro e alle sue complesse dinamiche, in una fagocitante visione della persona soprattutto come detenuto, mentre gli operatori dell’esecuzione penale esterna e del terzo settore utilizzano un altro punto di osservazione, quando non un altro linguaggio.

La peculiarità della detenzione, con tutti gli effetti dell’istituzione totale, sollecita gli educatori a prendersi carico della persona reclusa proprio nel e per il suo status di detenuto/a e ciò può limitare l’orizzonte educativo, così come la presa in carico della sofferenza può indurre gli stessi ad accelerare il processo di decarcerizzazione, non sempre valutando – nell’ovvia complessità dell’osservazione penitenziaria, con i limiti dovuti al contesto3 – le problematiche che la persona potrebbe incontrare all’esterno – idealizzato – sia in termini psicoaffettivi, sia in termini estremamente pratici.


3 – «Le relazioni sono fortemente connesse con l’obbedienza e il sistema (formale e informale) delle punizioni. All’interno di questo artefatto contesto si possono aprire spiragli di relazioni genuine quando il ruolo riesce a lasciare il posto all’incontro tra persone» (Bezzi, 2019, pag. 60).

Riferimenti bibliografici

  • Benelli C. (2012), Coltivare percorsi formativi. La sfida dell’emancipazione in carcere, Liguori Editore, Napoli
  • Bezzi R. (2019) Detenzione, mantenimento dei rapporti affettivi, necessità di emancipazione. Una questione educativa“, Pedagogika (rivista di educazione, formazione e cultura), 2 anno 23, aprile- giugno 2019
  • Bezzi R. (2019), Il carcere: spazio identitario e relazionale, in In Gabbia, DadOve – Quaderno 3 – Eurolit Roma
  • Biasin C. (2015), Adultità, riflessione critica e apprendimento trasformativo, Metis Mondi educatici. Temi indagini suggestioni,  (metisjournal.it)
  • Biasin C. (2019), Emerging adulthood: la fatica di diventare adulti, in Cornacchia M., Tramma S., a cura di, Vulnerabilità in età adulta. Uno sguardo pedagogico, Carocci, Roma
  • Bortolato M., Vigna E. (2020), Vendetta pubblica. Il carcere in Italia, Laterza, Bari.
  • Ceretti A., Cornelli R., (2018), Oltre la paura. Affrontare il tema della sicurezza in modo democratico, Universale Economica Feltrinelli, Milano
  • Foucault M. (1976), Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino
  • Knowles M.S., Holton III E. F, Swanson R.A. (2008), Quando l’adulto impara. Andragogia e sviluppo della persona, FrancoAngeli, Milano  
  • Marescotti E. (2020), Adultescenza e dintorni, il senso dell’educazione, FrancoAngeli, Milano
  • Musaio M. (2020), Fragili esistenze in carcere – tra domandare pedagogico e relazione d’aiuto, in Musaio M., Coarelli R., Di Profio L., (2020), Umanità in grata. Riflessioni pedagogiche per la relazione d’aiuto con la persona reclusa, Studium, Roma
  • Oggionni F. (2019). Cosa resta dell’identità adulta nell’esperienza carceraria. In Cornacchia M., Tramma S., a cura di, Vulnerabilità in età adulta. Uno sguardo pedagogico, Carocci, Roma
  • Simon R. L, (1997), I buoni lo sognano, i cattivi lo fanno. Psicopatici, stupratori, serial killer, Raffaello Cortina, Milano
  • Taraschi M. (2020), La pedagogia in carcere. Fra ansie sicuritarie e istanze emancipative, Liguori Editore, Napoli
  • Tramma S., (2008), L’educatore imperfetto. Senso e complessità del lavoro educativo, Carocci Faber, Roma

[L’immagine di apertura è di LaPresse/Stefano Porta ]


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