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Case della comunità: non è un cambio lessicale

Don Virginio Colmegna: «Le Case della comunità non dovranno essere poliambulatori, ma luoghi dell’integrazione tra sociale e sanitario».

Ieri (lunedì 6 settembre 2021), la Giunta della Regione Lombardia ha varato un piano sulla città di Milano, che rilancia il tema delle Case della comunità. Al di là della questione delle strutture è indispensabile acquisire un concetto fondamentale: non si tratta solo di un cambiamento di linguaggio, ma di una scelta strategica.

Dire Casa della comunità significa dire qualcosa di veramente nuovo: non è un poliambulatorio né un insieme di servizi, ma è affermare fortemente i principi fondamentali della dignità della persona e della centralità della persona dove è richiesta, come presupposto fondamentale, la lettura dei bisogni di un territorio in termini partecipativi.

Case della comunità: sperimentazione e innovazione

Casa della comunità è la sottolineatura, decisiva, del superamento della separazione tra il sociale ridotto ad assistenziale e il sanitario. Ed è quel luogo dove portare avanti quella politica di integrazione sociosanitaria che fa intravedere il grande valore del patrimonio di cui sono portatori il terzo settore e il volontariato. Un patrimonio, che deve essere valorizzato, di partecipazione, di conoscenza del territorio, di attenzione a quelli che rischiano di essere esclusi dall’universalità dei diritti, vale a dire i più fragili e i più deboli.

Allora, all’interno di cambiamenti così complessi e strutturali, abbiamo bisogno di una carica importante di sperimentazione e innovazione. La spinta che abbiamo fatto per inserire il comma 4bis nella legge 77/2020 è un pezzo legislativo importante, che valorizza in termini di ottica pubblica e non privatistica il ruolo del terzo settore e del non profit come attore di “cogestione”, come l’ha definito anche una recente sentenza della Corte costituzionale.

In quel testo di legge si dava il via alla “sperimentazione di strutture di prossimità per la promozione della salute e per la prevenzione, nonché per la presa in carico e la riabilitazione delle categorie di persone più fragili, ispirate al principio della piena integrazione socio-sanitaria, con il coinvolgimento delle istituzioni presenti nel territorio, del volontariato locale e degli enti del Terzo settore senza scopo di lucro».

Salute come valorizzazione dei determinanti sociali

Insieme a decine di altre realtà di tutto il territorio nazionale abbiamo promosso il movimento “Prima la comunità” nato proprio per portare avanti questa nuova cultura della salute intesa come benessere di un’intera comunità e che trova nell’istituzione delle Case della comunità il suo compimento. Come detto non è una questione solo nominalistica, ma l’avvio, per dirla ancora con il testo di quell’emendamento diventato legge per cui ci siamo battuti, di progetti che «devono prevedere modalità di intervento che riducano le scelte di istituzionalizzazione, favoriscano la domiciliarità e consentano la valutazione dei risultati ottenuti, anche attraverso il ricorso a strumenti innovativi quale il budget di salute individuale e di comunità»

Una sottolineatura determinante quella della verifica. Il nostro modello di Casa della comunità, che si trova pubblicato sul sito primalacomunita.it, poggia sulla ricerca scientifica portata avanti da importanti istituti come Università Bocconi, Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, Istituto Mario Negri.

Con le Case della comunità si esce dalla logica privatistica delle prestazioni e del mercato e si entra in una dimensione della salute come valorizzazione dei cosiddetti determinanti sociali, vale a dire l’abitare, la cultura, la scuola, il lavoro, il tempo libero, il sociale, la gestione della pena, la tutela dell’ambiente e tanto altro ancora.

Non solo un aggiustamento di facciata

Milano e la Lombardia sono già ricche di esperienze dove si lavora con questo stile e approccio. Si tratta ora di inserirle dentro percorsi di sperimentazione da avviare secondo le modalità già richiamate dal comma 4bis e che devono essere coordinate dalle Regioni. Noi come Prima la comunità abbiamo tre ambiti già ben avviati: il territorio di Crescenzago nel Comune di Milano, un insieme di Comuni della Brianza Est e di un’area della bergamasca. Le risorse ci sono, arrivate anche dall’accordo Stato-Regioni. Noi siamo pronti a partire.

Presenteremo presto il progetto specifico per il territorio del Municipio 2 in cui è inserita Casa della Carità, tra i quartieri Crescenzago e Adriano, dove abbiamo allacciato una collaborazione forte con la realtà di Proges, una RSA che lavora con una concezione innovativa di residenza socio-assistenziale diffusa sul territorio. Le iniziative per le quarantene o le vaccinazioni di persone in difficoltà fino all’ospitalità dei profughi afghani sono lì a dimostrarlo. Come Casa della Carità stiamo poi facendo un lavoro innovativo con la figura professionale dell’infermiere di prossimità e stiamo continuando il nostro orientamento di advocacy sui diritti.

Crediamo sia necessario non rimandare oltre l’avvio della sperimentazione, che è sperimentazione di politiche di salute ovvero di politiche sanitarie. L’auspicio è anche che questa lettura apra un dibattito per cui le Case della comunità non saranno un aggiustamento di facciata, ma soprattutto la rottura dello schema che vede la separazione tra sociale e sanitario.

[L’immagine di apertura è di Neil Thomas suUnsplash]


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