Quando è arrivato in via Brambilla 10 anni fa, Jibo era un ragazzino solo e scoraggiato. Oggi ha 28 anni ed è tornato alla Casa. Non più come ospite, ma come operatore.
«Quello che ho fatto fino a ora mi ha aiutato molto, sono riuscito a migliorare le mie competenze di lettura nella lingua italiana. Prima pensavo che era una cosa molto difficile, che non ci sarei arrivato mai. Ma alla fine ce l’ho fatta».
10 anni fa Jibo era uno dei giovani ospiti della Casa della Carità e pronunciava queste parole al termine dell’edizione 2013 della Società di Lettura, progetto della nostra Biblioteca del Confine, che ha l’obiettivo di avvicinare ai libri e al piacere della lettura ragazzi e ragazze provenienti da contesti sociali e culturali differenti: gli ospiti della Fondazione, studentesse e studenti del Liceo Scientifico “Volta” di Milano e i giovani detenuti del carcere di San Vittore.
Oggi ha 28 anni e alla Casa della Carità c’è tutti i giorni. Non più come ospite, ma come lavoratore. Jibo è uno degli infermieri della Fondazione.
La storia di Jibo dal Senegal a Brescia
Jibo è originario del Senegal, dove viveva insieme alla sua numerosa famiglia e dove ha frequentato le scuole fino alla terza media, per poi raggiungere, insieme a un cugino, uno zio che da tempo risiedeva in provincia di Brescia. «Sono stato fortunato, perché sono potuto arrivare in Italia con un aereo, a differenza di tanti ragazzi che ho conosciuto e che hanno rischiato la vita in mare», dice Jibo quando parla del suo percorso.
Arrivato a Brescia, si trasferisce dallo zio, che lavorava come tipografo specializzato, insieme al cugino che era partito con lui e si iscrive al primo anno del liceo linguistico. «Per me è stato molto difficile, perché non parlavo italiano. Ma a scuola ho conosciuto tanti amici, a cui sono ancora legato, che mi sono stati sempre vicini, aiutandomi in tutto e traducendo per me dall’italiano al francese. In matematica andavo bene, come in Senegal, ma a causa della lingua non ho passato l’anno», racconta Jibo.
Da Brescia a Milano
E le cose per lui non vanno meglio fuori da scuola. Lo zio, infatti, perde il lavoro da tipografo e, non riuscendo più a mantenere figlio e nipote, manda quest’ultimo a Milano, da un suo conoscente. Per Jibo è una batosta: a soli 16 anni si trova a dover lasciare ancora una volta i suoi legami, gli amici bresciani a cui era tanto legato, gli studi.
A peggiorare la situazione, l’amico dello zio costringe Jibo a lavorare come parcheggiatore abusivo nel centro di Milano, dalla mattina alla sera, tutti i giorni. «Non mi piaceva per niente quel lavoro, era umiliante. Io volevo tornare a Brescia, studiare e imparare bene l’italiano», dice.
Ma anche da questa esperienza così negativa, per Jibo sembra nascere qualcosa di buono. Un giorno, infatti, aiutandola a ritrovare la sua auto nel parcheggio, conosce la signora Luisa, che si ferma a parlare con lui più di un’ora, interessandosi alla sua storia.
Dopo aver ascoltato tutto, Lucia chiede al ragazzo il numero di telefono del professore che lo seguiva a Brescia: voleva contattarlo e aiutare Jibo a riprendere gli studi. Parte così una mobilitazione, che coinvolge il liceo linguistico che frequentava Jibo, i compagni di classe e le loro famiglie per aiutarlo, farlo tornare a Brescia e accoglierlo in qualche comunità.
E per circa un mese, Jibo trova posto in un dormitorio e, seppur non fosse iscritto, segue comunque le lezioni. Tuttavia, non riesce a trovare una soluzione abitativa diversa e duratura e così, abbattuto, il ragazzo lascia di nuovo la città, gli studi e torna a Milano.
L’accoglienza alla Casa della Carità…
Per qualche tempo, la signora Luisa e il marito lo accolgono in casa propria a Milano. Non erano benestanti, ma volevano aiutarlo in qualche modo. Jibo dà anche una mano al marito di Luisa, che lavora come manutentore di serramenti.
Anche il sogno di vivere in questa famiglia, però, presto si infrange: «Un giorno ho trovato un biglietto sul tavolo con scritto: “Sei stato come un figlio per noi ma ora non riusciamo più ad accoglierti a casa, prendi la busta con dentro 200 euro e rivolgiti alla Casa della Carità, chiedi aiuto a loro”», ricorda Jibo.
Tra le lacrime, Jibo prepara una valigia con le sue poche cose e si presenta al centro di ascolto della Casa della Carità, dove è accolto da una delle operatrici della Fondazione. «Vedendomi molto triste mi ha chiesto come mai fossi così abbattuto. E io ho risposto che ero sconfortato dalla vita, perché non me ne andava mai bene una ed ero abbandonato da tutti».
Ma quel giorno per Jibo, che viene accolto in via Brambilla, comincia una nuova avventura: «Ricordo che quando sono arrivato mi sono trovato in un luogo pieno di vita, dove c’erano tanti ragazzi della mia età, pronti a spiegarmi come funzionava la Casa, e che a darmi il benvenuto c’erano gli operatori Stefano Bianchi, Peppe Monetti, Serena Pagani, Diego Mazzocchi, Giorgio Quaranta e Tea Geromini».
… prima come ospite…
Jibo coglie tutte le possibilità che la Casa gli offre: affiancato dalla volontaria Fabiola D’Alessandro, frequenta la scuola di italiano; partecipa ai laboratori di arteterapia, alle partite di calcio, alle gite, alle domeniche allo stadio. Insieme agli operatori, sistema il curriculum. Fa amicizia con gli ospiti, con cui si crea un bel gruppo affiatato.
Grazie alla partecipazione alla Società di Lettura organizzata dalla Biblioteca del Confine, Jibo stringe amicizia con Fabio, uno studente del Volta, che, d’accordo con i genitori, gli propone di trasferirsi da loro. Jibo accetta, ma quasi tutti i giorni torna alla Casa per il corso di italiano, per la ricerca del lavoro, per parlare con Peppe e sistemare i documenti.
Nel frattempo, frequenta diversi corsi professionali e, finalmente, riesce a iscriversi a scuola e a terminare le superiori. Con ottimi voti. E trova anche lavoro in un Autogrill, anche se lontano dal centro città. Ma lui non si scoraggia: tutti i giorni, prende la bici, il passante ferroviario e dopo altri chilometri di pedalata arriva al lavoro.
Quando finalmente viene trasferito nel punto vendita della Stazione Centrale, la vita di Jibo prende la svolta decisiva: di giorno lavora, di sera va a scuola; riesce a fare sport e a vedere gli amici: «Ero felice, finalmente avevo un equilibrio una stabilità, una normalità, come i ragazzi italiani miei amici. È il sogno di ogni ragazzino straniero che arriva in Italia».
…poi come operatore
Terminate le superiori, Jibo si iscrive a un corso per diventare l’infermiere e prende anche questo diploma.
Resta sempre in contatto con la Casa della Carità, dove si reca spesso, perché si sente troppo legato a questo luogo cui, dice, deve tanto. Così, spinto dal desiderio di restituire quello che gli è stato dato, chiede a Stefano Bianchi, l’educatore che l’ha seguito al suo arrivo, se può fare il volontario come infermiere alla Casa. E ovviamente la risposta è sì!
Un giorno, Stefano dice a Jibo che alla Casa c’è bisogno di una persona a tempo pieno. In quel periodo Jibo lavorava a tempo indeterminato in una RSA, ma non ci pensa due volte: lascia quel lavoro e torna alla Casa della Carità come operatore. Per lui è come chiudere un cerchio.
Quando gli chiediamo come si sente a essere un operatore nel luogo che lo aveva accolto quando era un ragazzino, dice che è strano: «Ogni volta che entro in una stanza penso a quei giorni, al mio letto a castello, al mio comodino e mi emoziono. Per me la Casa è stata una famiglia, sono stato seguito in tutto nel trovare il lavoro, negli studi, ho trovato amici tra ospiti e operatori, legami veri. Sono stato fortunato, perché ho trovato persone davvero speciali».
Oggi guardare Jibo sorridere ed essere capace di instaurare un buon rapporto con gli ospiti fa un po’ commuovere anche Stefano, Peppe, Diego, Serena, Tea e tutti gli operatori della Casa che l’hanno visto crescere e hanno creduto in lui.