L’articolo di Alessandro Prezioso e Angelo Malinconico è contenuto nel numero 22 di SOUQuaderni.
Uno dei prodotti delle società liberal-democratiche è l’insieme delle risorse simboliche e materiali che riguardano le lotte, le rivendicazioni e il riconoscimento dei diritti civili. Sappiamo bene che ciò, nel nostro Paese, assume i caratteri di un mantello a macchia di leopardo, spaziando da realtà virtuose ad altre in cui risorse reali, princìpi e programmazioni pluraliste restano meri enunciati[1].
Il rapporto tra quelle risorse e i diritti politici appare complesso; a tal proposito è importante mostrare quanto il conflitto otto-novecentesco intorno alle categorie del Politico si sia andato trasformando, fino a rappresentare una diversa configurazione del rapporto tra Stato, società civile e soggetto. La frammentazione dell’apparato di conoscenze e di prassi che caratterizzava il riconoscimento di diritti politici (ad esempio, quelli che riguardano la redistribuzione delle risorse, le lotte per il salario e per equilibrare il rapporto tra tempo di lavoro e tempo libero, ecc..) ha condotto oggi allo sfarinamento della base sociale che sosteneva quelle proposte, con la conseguente perdita di un apparato di sintesi. Assistiamo allora alla proliferazione di discorsi che rispondono a logiche di micro-resistenza, a lotte per istanze parcellizzate, non incastonate cioè in un orizzonte di emancipazione, progressivo, che tenga insieme ciascuna proposta. Queste ultime divengono spesso sterili posizioni di principio, o formule ripetitive che non riescono a garantire l’analisi ottimale e l’intervento incisivo.
L’individuo moderno – in un contesto regolato materialmente e simbolicamente dai ritmi del capitalismo nella sua fase avanzata – è attraversato dalle forme più pervasive di un tale assetto, che è determinato proprio dall’incrocio di questioni politiche, economiche e culturali, le quali caratterizzano l’innesto del discorso capitalistico sull’impianto liberale occidentale. La soggettività sorge all’altezza del discorso dell’Altro in quanto collettore che assume e riproduce le dinamiche del sistema appena descritto[2]. Da un punto di vista politico, sembrerebbe che le istanze nazionalistiche e le rivendicazioni identitarie siano solo un intoppo nell’inesorabile progressione che il libero mercato pone in essere a livello mondiale. Per dirla meglio, si potrebbe immaginare che il vuoto causato dalla fine della narrazione emancipatoria progressista lasci solo due opzioni in campo: quella sovranista, identitaria e reazionaria (che raccoglie quanto di irrisolto e non elaborato resta delle rivendicazioni delle classi lavoratrici, ponendo tali istanze a un livello immaginario, di pura propaganda) e quella cosmopolitica, capitalistica e liberal-democratica occidentale, che si muove al ritmo dettato dalle merci e dagli oggetti sui produttori e consumatori.
Il sistema dialettico che si riassumeva nell’opposizione tra interessi differenti (i produttori da una parte, il capitale dall’altra) si è dunque sfaldato[3], lasciando spazio alle strategie di resistenza minima e diffusa, che si compendiano nella moltiplicazione di gruppi minoritari dalle identità estremamente omogenee. È a tali realtà sociali che si applica la logica del diritto umano/civile[4]. In sostanza, i gruppi svantaggiati o minoritari sono il campo di traduzione del potere-sapere liberale, il quale produce un assetto sociale e simbolico tutto teso a garantire al campo di chi gode del riconoscimento di quel determinato diritto uno statuto formalmente speciale, generando spesso un effetto di esclusione da ogni altro discorso pubblico. È quanto in parte Foucault intendeva segnalare con il passaggio dalle forme disciplinari di strutturazione della società civile e del potere statuale alla governamentalità e alla biopolitica. L’organizzazione collettiva delle forme ideologiche cede il passo alla gestazione di micro-rivendicazioni, che sembrano riguardare più la logica del libero mercato capitalistico che quello della lotta per le acquisizioni politiche e sociali.
Come ovvio, la patologia mentale è – almeno negli ultimi decenni – al centro di un siffatto meccanismo[5]; occorre allora considerare l’attuale assetto delle teorie e dei dispositivi terapeutici nel “mercato” della salute mentale, al fine di tracciare un quadro delle dinamiche interne al campo di sapere che anima le pratiche di intervento in salute mentale.
A tal fine, si può affermare che da una parte esiste la serie di formulazioni protocollari della cura, da quelle biologiche alle terapie di ispirazione comportamentista o cognitivo-comportamentale. Questo gruppo di assetti teorico/clinici sono ormai interni al discorso della EBM – Evidence Based Medicine -; in misura diversa, cioè, costituiscono e alimentano il dispositivo “autopoietico” delle teorie dell’intervento terapeutico. Un modello nasce così già corredato dei propri strumenti di valutazione, che ne rilanceranno all’infinito la validità della prassi clinica, in un circuito estremamente astratto e spesso contestato dagli esponenti della EBM stessa[6].
Da un vertice differente (quello che potremmo temporaneamente definire come prossimo alla psichiatria sociale, al lavoro di integrazione sociale e lavorativa, al Recovery), muove una serie di proposte che intendono la cosiddetta riabilitazione psico-sociale come acquisizione di diritti di cittadinanza, attraverso gli strumenti dell’inserimento lavorativo e dell’integrazione sociale.
Tali interventi non sono connotati in termini di modello, ma possono essere applicati prescindendo dalla teoria e dalla pratica terapeutica di riferimento[7].
Ad esempio, la proposta del Recovery in quanto formula “terapeutica” si dimostra generica, mancando l’esplicitazione del “come” e suggerendo solo il “cosa”, in termini certamente condivisibili, poiché vaghi. Il lavoro con il paziente grave sarebbe allora filtrato dai grandi contenitori di terapie standardizzate (EBM) e da un piano di trattamento degli aspetti sociali collegati alla patologia di natura universale e generica (quanto facciamo risalire grosso modo al movimento del Recovery). Si potrebbe quasi dire – azzardando e radicalizzando la nostra analisi – che il contenitore Recovery (e tutte le pratiche che lo caratterizzano) abbia come contropartita teorica la serie di terapie formalizzate dal modello EBM[8]. Ancora una volta non è nostro interesse fornire una valutazione nel merito degli strumenti, ma solo un esame del loro eventuale reciproco rapporto e della relazione tra gli strumenti stessi e il campo della salute mentale. È solo in tal senso che si può suggerire un legame talvolta rigido tra la critica di modelli clinici differenti da quelli EBM (si pensi alla psicoanalisi) e la saldatura di tecniche riabilitative standardizzate con misure di inserimento sociale e acquisizione di diritti come quelle proposte dal movimento del Recovery. La rinuncia a discutere e proporre la propria visione del mondo intorno al tema della soggettività, della sua genesi e dei suoi rapporti con l’Altro sociale ed economico lascerebbe così spazio all’automatismo universalista EBM/Recovery.
Non si è forse rinunciato a immaginare modelli terapeutici e a definire teorie dell’intervento in istituzione (e non solo), in nome di un vago e generico intervento psico-sociale? Così come la fine degli organizzatori di senso politici sul finire del ‘900 ha liquidato non solo la forma partito, ma anche dei pezzi di realtà come la disuguaglianza di classe e l’ineguale assegnazione di risorse, derubricando la lotta di classe a rottame concettuale, allo stesso modo la chiusura intorno alle teoria della pratica terapeutica e la rimozione della tematica del Soggetto, ha otturato la riflessione sulle modalità di analisi e intervento della stessa dimensione terapeutica e della posizione di chi pretende di essere curante. La fine della rivendicazione dei diritti politici ha coinciso con l’esplosione delle piccole battaglie minime, frammentate e settarie per i diritti umani[9]; allo stesso modo, la chiusura del discorso intorno all’idea di essere umano, di inconscio, di transfert e di alienazione ha consegnato la salute mentale ai dispositivi protocollari e alle ricette vaghe di terapie integrate e di programmi indefiniti di reinserimento lavorativo (nuovamente: non rigettiamo la qualità del lavoro che si svolge con le comunità di appartenenza e tutti gli apparati dedicati a tali obiettivi; piuttosto constatiamo l’appiattimento del discorso terapeutico su ricette spesso semplicistiche e generiche).
Una delle accezionipiù evidenti e meno contestate dell’istituzionalizzazione ci pare essere proprio questa: il potere non è solo quello che rinchiude e crea sacche di stratificazione sociale, ma anche e soprattutto quello che, in nome di dispositivi formalizzati e protocollari, cancella la domanda del paziente in nome di una uniformità massificante. Si tratta, in definitiva, dello stesso meccanismo che caratterizza la produzione e il consumo nell’età del tardo-capitalismo.
Si potrebbe definire tale meccanismo come la tendenza a non cogliere la specificità del singolo nel suo rapporto con il mondo e con l’Altro, determinando una griglia di assuefazione e di costruzione di un bisogno standardizzato, il quale rimuove e nega non solo l’inderogabilità del desiderio, ma anche la dialettica della domanda. Quest’ultima, infatti, non è solo domanda di beni, ma – in ottica psicoanalitica – domanda di niente, domanda sospesa in un vuoto di attesa che istituisce il meccanismo stesso del desiderio, a sua volta attivatore di processi pregni di interrogativi e non di meccanicistica ricerca di risposte generalizzanti. Il libero mercato fa regredire tale dinamica alla dimensione di puro bisogno; proponiamo di rintracciare nella dimensione del bisogno il sostrato psicologico e teorico che fonda il ricorso costante alla formula del diritto umano, in quanto affermazione non-mediata dell’uomo come pura umanità, spogliata dalle sue categorie politico-culturali e veramente “umanizzanti”. La saturazione del campo sociale tramite i prodotti del mercato frammenta l’asse domanda/desiderio, installa un meccanismo che ruota intorno al bisogno. Un individuo non più preso dentro la dialettica degli opposti, regredisce a Medesimo, si incolla a se stesso; la retorica del diritto umano può intervenire, su un soggetto costituito in questo modo, escludendo la costruzione Politica del diritto e al suo inaggirabile versante conflittuale. L’uomo – in un siffatto schema – sarà dunque tale nella misura in cui potrà ottenere un grado di accessibilità al mercato delle merci e al godimento di esse e come ente a cui è necessario riconoscere l’inderogabile diritto a questo godimento, orizzonte ultimo della serie di diritti civili. È chiaro il legame tra quanto appena descritto e la genesi di minoranze sempre nuove nel campo della società civile: minoranze che rappresentano il sintomo più evidente della rimozione del Politico, e le singole istanze per cui compaiono nel discorso pubblico non sono altro che prodotti commerciali sul mercato dell’ideologia. La demistificazione del discorso Politico attraverso lo sfarinamento della sua complessità introduce le minoranze richiedenti il riconoscimento di diritti civili nel grande mercato del capitalismo contemporaneo, in cui quei gruppi divengono settori potenzialmente portatori di plus-valore[10].
Ciò che proponiamo è l’ipotesi di una continuità tra il discorso egemone del tardo-capitalismo, che tiene insieme la teoria della “fine della storia”, la liquidazione delle categorie politiche e teoriche novecentesche, e la nascita di minoranze sempre più ristrette e omogenee al proprio interno, alle quali corrisponde l’inflazione delle rivendicazioni e del riconoscimento di diritti civili. A un quadro del genere corrisponde un meccanismo che produce lo svuotamento e l’impoverimento del dibattito pubblico: come abbiamo già affermato, depauperamento delle risorse teorico-pratiche politiche e della teoria della clinica in ambito psichiatrico-psicologico rappresentano due versanti di uno stesso dispositivo. Ciò può essere ricondotto al campo della salute mentale nella misura in cui anche la patologia mentale diviene punto di applicazione di una logica che risponde a due ingiunzioni:
– Applicare pratiche terapeutico-riabilitative pseudo-scientifiche, replicabili e standardizzate, con l’effetto conseguente di cancellazione del Soggetto, che diviene oggetto;
– Confusione tra il percorso di Recovery e aspetti puramente terapeutici; questi ultimi devono essere fondati in termini di modello, dichiarandone i presupposti teorici ed etici. Il primo insieme di interventi non può essere definito in sé terapeutico in assenza di una particolarizzazione dell’intervento che si qualifichi nel “caso per caso”.
In questo senso, appare paradossale la relazione tra modelli terapeutico-riabilitativi standardizzati come quelli proposti dalla EBM e principi ideali del Recovery: i primi, infatti, tendono a non particolareggiare l’intervento, valutando statisticamente il funzionamento e le medie di riferimento; i secondi, almeno in teoria, vorrebbero rivendicare e ottenere “diritti per tutti”, non enunciando però le caratteristiche del modello attraverso cui perseguire tale obiettivo. Un assetto del genere si presta ad essere captato da ogni formula teorico-pratica, con l’evidente conseguenza che a enunciati ideali non corrisponde una coerente messa in pratica, se non per quei pazienti che possiedono già in una certa misura le abilità per aderire ai percorsi di riabilitazione (siamo al cortocircuito già esposto in un nostro precedente articolo[11]: le selezioni a monte escludono i pazienti gravi, per i quali è difficile immaginare un percorso terapeutico costruito intorno a protocolli cognitivo-comportamentali o su una Recovery “piena”).
È in questo senso che la logica del diritto civile/umano rischia di invadere il campo terapeutico in salute mentale: la rivendicazione di una minoranza che chiede di essere annessa al campo delle merci/diritti non modifica l’assetto patologico del singolo, né il contesto alienante che è l’effetto dell’attuale modello di produzione e allocazione di risorse. La messa a punto di modelli terapeutici integrati non è solo un’evoluzione tecnica nel mondo della riabilitazione e della cura, ma anche sintomo dell’assetto ideologico che rimuove il pluralismo e concentra l’intervento sull’adesione al modello sociale egemone. Non si tratta forse di questo, quando l’unico obiettivo di una cura è condurre (o ricondurre) l’individuo a una situazione (ideale) che precede la patologia, reinserendolo nella società civile, libero fruitore di diritti e merci? Inoltre, le rivendicazioni parcellizzate che si esemplificano nei movimenti per i diritti civili contiene una matrice a-politica, caratterizzata dalla frammentazione di un orizzonte di senso che funga da operatore di sintesi; allo stesso modo, un approccio vago e generico come quello enunciato dagli esponenti del Recovery si dimostra preda – per quanto condivisibile negli intenti – di ogni contenuto che si voglia imporre (in definitiva, non importa secondo quali linee si sviluppa un progetto terapeutico, come la teoria e la pratica interagiscano con l’etica della cura, a quale modello di soggettività ci si riferisca: sarà terapeutico il generico ricorso agli assunti del Recovery!).
L’area terapeutico-riabilitativa che abbiamo assimilato alle misure di inserimento sociale-lavorativo e, più in generale, al movimento del Recovery, rischia dunque di essere un operatore coerente con l’ideologia dominante, specialmente quando sposta l’asse in maniera decisiva verso la risposta al bisogno omologante di “reinserimento”[12]. Ciò lascia scoperto il versante del lavoro con il soggetto, inteso non come mera sommatoria di funzioni da riabilitare, ma in quanto portatore di una resistenza a ogni dinamica di valutazione e all’appiattimento della propria esistenza sul versante dei bisogni “concreti”. Tutto ciò fa correre ai Servizi di cura e ai pazienti stessi il rischio di non cogliere la rivoluzione (intesa quale ricchezza) insita in ogni domanda, sintomo e desiderio del paziente grave, con la concreta conseguenza di una lenta istituzionalizzazione di ritorno e di una esclusione di fatto dai circuiti terapeutici. I protocolli di intervento standardizzati e lo spostamento dei processi di cura sul versante esclusivamente socio-educativo rappresentano così i due corni della rinuncia alla elaborazione di una teoria del soggetto e della psicosi.
Il protocollo di intervento terapeutico-riabilitativo, nella retorica della valutazione dei bisogni reali del paziente, ne cancella la portata non omologabile, nel delirio di chiarire formalmente quanto non può esprimersi all’interno di un codice prestabilito. Allora il bisogno diviene il pratico-inerte, il sempre uguale (casa, soldi, lavoro), in una negazione colpevole del fatto che il soggetto resiste a quelle categorie, e che egli deve prima potersi scrivere dentro un luogo, far girare i propri significanti, trovare un territorio vacuolare all’interno del quale dipanare un discorso (chi lavora in salute mentale col paziente grave sa quanto un incontro con un luogo del genere possa rappresentare una esperienza inedita per certi pazienti, anche se non più giovanissimi).
È in questo senso che l’istituzione di cura deve essere luogo di in-scrizione, consentendo un transito inedito, soprattutto al paziente grave, altrimenti intrappolato nelle forme di manicomialità secondaria[13]. Qual è la funzione di una Comunità Terapeutica in termini non segregativi? La retorica post-Legge 180 ancora oggi rischia di confondere le acque in relazione a tale quesito, inserendo l’instaurazione di sempre più raffinati dispositivi terapeutici specifici e di una tendenza al Recovery tra gli strumenti che dovrebbero garantire una tenuta contro le derive delle istituzioni totali. Ma si tratta solo di questo?
Una reale critica della dimensione del potere istituzionale in quanto spazio di reificazione deve necessariamente passare per la tutela di tutti quei luoghi che fungono da supporto per una scrittura inedita del paziente psicotico, altrimenti destinato a essere l’oggetto del discorso dell’Altro[14].
Concretamente, si tratta – in primis – di favorire la tolleranza in quanto forma di interpretazione analitica, e di costituire un reticolo sul quale ogni singola storia potrà organizzare il proprio specifico “dire”. Ogni luogo di cura non può che essere un dispositivo in cui i significanti, le singole istanze che il paziente introduce, faranno ingresso nel più ampio gioco dei significanti, generando significato (ci rifacciamo, come ovvio, alla teoria lacaniana del rapporto tra significante e significato). Se la psicosi è il congelamento del significante, la sua mortificazione causata dalla mancanza di fluidità nelle relazioni tra essi, l’istituzione di cura dovrà farsi supporto perché si avvii un movimento (non prevedibile, né totalmente pianificabile) all’interno del quale emerga qualcosa del Soggetto, che si rappresenta proprio come apparato di significanti in relazione ad altri significanti. L’Altro, in ogni sua forma, potrà divenire perno per il gioco di elementi che il paziente introdurrà in uno spazio non saturato, “vacuolare” secondo la definizione di Jean Oury[15]. È solo in questo senso che il lavoro sul sintomo non sarà solo tentativo medico-correttivo, ma anche e soprattutto costruzione di una soggettività che non può prescindere dal sintomo stesso; non si tratta, insomma, di dare un “senso” al sintomo, ma di lasciare girare il sintomo in quanto significante, perché esso stesso partecipi alle possibilità di costituire una tenuta inedita per lo psicotico.
È per lo stesso ordine di ragioni che rigettiamo l’utilizzo e la definizione di protocolli estremamente rigidi, di ambienti eccessivamente artificiali (è il tema dei fattori a-specifici[16]): è di certo necessario che il paziente trovi un ritmo non patologico, una collocazione puntuale di spazio e di tempo, ma è altrettanto vero che il ritmo da ricostruire nella psicosi non può essere totalmente imposto dall’Altro, attraverso la standardizzazione di processi. È sulla superficie della Comunità (anche della comunità locale) che quelle catene di significanti, di azioni minime, si dipanano, come un tessuto che è possibile interpretare, decifrare.
Tali superfici abitabili sono lo sfondo di proiezione del discorso inconscio del paziente e dell’équipe curante, anche in assenza di parole; nei casi di gravi ritiri autistici temporanei o cronici, la funzione psicoanalitica di un’istituzione di cura è esattamente quella di mirare al testo non detto, anche a ciò che non è parola, ma che rientra comunque dentro un assetto significante, nel senso che può essere introdotto in un reticolo di altri significanti e interpretato[17].
A proposito della tolleranza, non parliamo di una attitudine astratta, ma di una disponibilità a lasciar accadere certi eventi, a non esserne eccessivamente spaventati a causa dell’attacco che essi possono rappresentare alla tenuta del gruppo curante o del singolo operatore; si tratta, insomma, del fatto di essere oggetto d’uso per lo psicotico, lasciandosi adoperare come tessuto significante, come sponda perché qualcosa rompa la mera ripetizione del sintomo e si innesti in quadri transferali gestibili.
La qualità di un lavoro del genere si deve misurare in termini di riduzione del sintomo, ma anche di una sua riarticolazione inedita, la quale necessita di una ampia tolleranza nei confronti del sintomo stesso; troppo spesso assistiamo a gestioni iper-centralistiche dei dispositivi terapeutici, che riducono al massimo i rischi e forniscono una tenuta sufficientemente equilibrata al paziente, coartandolo però quasi completamente, e non consentendogli di organizzare un nuovo discorso intorno ad un vecchio sintomo.
Noi sosteniamo la possibilità di una utopia, favorendo l’instaurazione di luogo fittizio in cui le questioni singolari possano entrare nel reticolo astratto e concreto della vita di un collettivo, costruito per essere una mente e un corpo terapeutico. Si tratta, ad esempio, di B., ospite presso una nostra struttura residenzialeda diversi anni, e che ha tessuto una trama, una mappa di controllo della comunità locale, all’interno della quale si muove secondo un girovagare preciso, che ha ormai segnato il territorio stesso e gli osservatori locali. Qual è la funzione di una piccola “cosa” del genere? È la possibilità minima che un paziente gravissimosi è ritagliato di dire qualcosa camminando, incontrando sempre gli stessi esercenti, chiedendo loro sempre le stesse cose, e abitando un luogo differente dal manicomio, di cui aveva fatto esperienza. È questo Recovery? È reinserimento sociale? Fatichiamo a includerlo in queste categorie, preferendo descrivere l’esperienza come l’Evento di una inscrizione in un tessuto preesistente, il quale unico garantisce una esperienza di sufficiente contenimento e altrettanta libertà.
È il caso, ancora, di M., giovane paziente che ha terminato il suo ricovero in struttura dopo due anni, e che ora è impiegato in una azienda locale. Inizialmente completamente congelato, ritirato, bloccato nel suo delirio e inattaccabile dal punto di vista relazionale, dopo circa sei mesi ha cominciato a far circolare i significanti che oggi sembrano caratterizzarne l’esistenza: essere/avere una famiglia, avere un lavoro, assumersi responsabilità, identificandosi alla figura paterna che si era dimostrata zoppicante nel corso della sua giovane esistenza. A partire da quel momento, e da tutti i setting non direttamente comunitari con i quali si è confrontato, una pulsione ritrovata ha rotto la stasi patologica che lo attanagliava, permettendogli di far propri i pezzi di identificazione e di relazioni sperimentate, declinandoli nel mondo “là fuori”.
Non si tratta dunque di cercare il senso, scovare il tesoro profondo che potrebbe spiegare i comportamenti e modificarli, ma di assicurare, in un percorso di Comunità terapeutica (in stretta interazione e con un modello intrinseco e coerente di continuità con il territorio)la non-saturazione degli spazi attraverso un eccesso di potere, controllo o una ipertrofia del fattore specifico, di valutazione e di intervento. Dentro spazi non condizionati in tal modo, si potrà allora esercitare l’osservazione e la costruzione di ipotesi teorico-pratiche individualizzate, non generalizzabili, che colgano qualcosa della singolarità e la rilancino in un tentativo, mai definitivo, di ripresa del desiderio e dei progetti di vita individuali[18].
Riprendendo alcuni dei temi trattati, si potrebbe dire allora che l’enfasi su ricette miracolose, l’insistenza sul lavoro, sul reinserimento sociale, devono poggiare su solide basi teoriche, che chiariscano il “come” e il “perché”, e non solo il “cosa”. Molti progetti lavorativi si infrangono infatti su una cattiva valutazione del discorso individuale e inconscio del paziente, e tanti esperimenti liberali di reinserimento sono solo piccoli avamposti regolati dalle stesse logiche istituzionali che si vorrebbero rigettare.
Per questo è necessario insistere sulle differenze insite in ciascun modello di lavoro, in ogni teoria e prassi clinica, in ciascuna versione della soggettività che queste vanno proponendo, perché anche operazioni volte al Recovery possano essere davvero efficaci.
Attraverso una costante e sottile omologazione dei modelli, la decostruzione delle specificità di ogni teoria e la banalizzazione dei costrutti (si veda, ad esempio, quello di inconscio, di transfert, ecc.), si rinuncia scientemente, ad esempio, a comprendere la questione delle valutazioni e dei protocolli di intervento standardizzati, dell’incidenza della EBM sulle pratiche di terapia psico-sociale, e il loro legame con una più raffinata forma di istituzionalizzazione, che non passa più per i dettami di una disciplina, ma per le volute di un potere-sapere. È compito di una teoria dell’intervento terapeutico chiarire anche la determinanti sociali e ideologiche all’interno delle quali si opera, e appare chiaro quanto la standardizzazione della riabilitazione e l’innesto massiccio di valutazioni modifichi il campo stesso di pensiero e lavoro quotidiano; non si può ignorare tali aspetti, credendo di operare in una bolla di neutralità ideologica e materiale.
La salute mentale può essere un contenitore perché le rivendicazioni dei pazienti vengano generalizzate anche ad altri ambiti, divenendo catalizzatore Politico per le questioni che riguardano la sfera pubblica e la nostra esistenza (una su tutte: il rapporto tra scienza e società, e tra categorie del senso comune e quelle della teoria/tecnica; ancora, l’allocazione di risorse e il ruolo della sanità pubblica di fronte all’avanzare della logica aziendalistica). In caso contrario, il lavoro in salute mentale morirebbe dentro una retorica del diritto di inclusione all’interno di una società capitalistica che funziona secondo modelli che sovrappongono all’alienazione psicotica quella sociale ed economica. Molto si parla di contesto, di ambiente, di determinanti sociali, culturali e di gruppo della malattia mentale, sottovalutando le condizioni più generali in cui certi fenomeni vengono prodotti, e che si collegano quasi completamente alla dimensione ideologica, economica e pratica del capitalismo post-industriale, con i suoi meccanismi e rituali.
BIBLIOGRAFIA
- AA.VV., Salute Mentale in Italia – La Mappa delle Disuguaglianze. SIEP – Quaderni di Epidemiologia Psichiatrica, n. 2/2018
- Carli R., Paniccia R. M., Di Ninni A. et al., La Cultura Locale dei Centri di Salute Mentale (CSM) in Italia, Rivista di psicologia clinica. Teoria e metodi dell’intervento, 3. Reperibile online: http://www.rivistadipsicologiaclinica.it/italiano/numero3_08/CSM.htm
- Malinconico A., Prezioso A., Percorsi residenziali di pazienti gravi: la retorica della valutazione e la virtuosità del “caso per caso”, Nuova rassegna di studi psichiatrici, Volume 17 – 3 Settembre 2018
- Oury J., Psichiatria e psicoterapia istituzionale, Venezia, Marsilio, 1976;
- Babele e Pentecoste. La Borde e la scrittura della psicosi. Bologna, Spirali edizioni1982;
- Psicosi e logica istituzionale. “Il Collettivo”, Bologna, Spirali, 1988
- ŽižekS., Contro i diritti umani, Milano, Il Saggiatore, 2005;
- Diritti umani per Odradek?, Milano, Nottetempo, 2005
Note
[1]Si vedano le ricerche di: R. Carli, R. M. Paniccia, A. Di Ninni, V. Scala, P. Pagano, F. Giovagnoli, F. Bucci, F. Dolcetti,S. Bagnato, C. Sesto, V. Terenzi, V. Bonavita, La Cultura Locale dei Centri di Salute Mentale (CSM) in Italia;
AA.VV., Salute Mentale in Italia – La Mappa delle Disuguaglianze. SIEP – Quaderni di Epidemiologia Psichiatrica, n. 2/2018
[2] Come ovvio, ogni sistema – lungi dall’essere pienamente fondato e omogeneo – è definito a partire dal rapporto tra modelli ideologici egemoni e quanto resiste alle sue spinte omologanti. Allo stesso tempo, non bisogna immaginare il sistema egemonico come completamente omogeneo al proprio interno: spesso contribuiscono alla diffusione di modelli ideologici istanze che possono apparire fenomenicamente in contraddizione (questa proposta può essere letta anche in questo modo: un sistema ideologico è esattamente ciò che riesce a riassorbire senza scossoni al proprio interno qualsiasi eterogeneità che dovesse svilupparsi alla periferia. Insistendo su tale registro, potremmo dire che la lettura marxiana della fine del capitalismo si fonda anche sulla previsione che esiste un punto di non ritorno, oltre il quale il meccanismo osmotico di assimilazione farebbe collassare il sistema stesso).
[3] Sarà utile precisare che il modello dei rapporti di classe è venuto meno con l’evaporazione delle condizioni teoriche che lo definivano; appare infatti chiaro quanto il rapporto tra capitale e lavoro sia ancora e di più materialmente a pieno vantaggio del primo soggetto, e quanto le disuguaglianze sociali aumentino, divaricando il rapporto tra le classi. La realtà continua a raccontare questo, ma ciò che scompare è una formula teorica e una prassi collegata che possano intervenire descrivendo e tentando di modificarne l’assetto. Non esiste una metamorfosi della realtà, ma solo la predominanza ideologica del codice simbolico che filtra e racconta quella stessa realtà.
[4] Per quanto si tratti di due forme che non possono essere sovrapposte completamente, dobbiamo considerare i diritti umani e quelli civili come pieghe di un comune sostrato: in alcuni casi, i secondi sono interpretati come una evoluzione dei primi. In definitiva, si potrebbe dire che il discorso liberal-democratico caratterizza entrambi i contenitori secondo un denominatore comune che – ci pare – tende a porre in secondo piano i diritti e i conflitti politici. È sufficiente leggere le cronache quotidiane per rendersi conto dell’invadenza dell’umanitarismo occidentale in quanto formula retorica che chiude il discorso politico intorno alle grandi questioni del nostro tempo (una su tutte: quella migratoria) e per notare la centralità dei diritti civili nel dibattito pubblico già nel tardo Novecento (coppie di fatto, adozioni, ecc.).
[5] Per quanto l’ondata migratoria abbia sovvertito i vettori del mercato, inondando di risorse i centri di accoglienza, la malattia mentale è e resterà l’osso duro nel rapporto con l’Altro e con il Medesimo: il rifiuto dell’Altro nelle sue forme radicali non può che avvenire, infatti, nei confronti dell’Altro che riconosciamo come Medesimo, della follia che abita l’animo umano e che rifuggiamo inorriditi, come di fronte alla morte. Insomma, l’Altro nella sua forma radicale non è il diverso che attraversa il mare in cerca di accoglienza, ma l’ek-stimo che ci abita come la Cosa più perturbante che esista e che tiene insieme il familiare e l’estraneo, l’intimo e l’assolutamente sconosciuto.
[6] Si veda: A. Malinconico, A. Prezioso, Percorsi residenziali di pazienti gravi: la retorica della valutazione e la virtuosità del “caso per caso”, Nuova rassegna di studi psichiatrici,Volume 17 – 3 Settembre 2018
[7] Ci pare che una forma vuota, una mancata caratterizzazione attraverso un modello, rappresenti una delle modalità con cui si manifesta l’ideologia: l’assenza di tali riferimenti produce un contenitore vuoto, del quale ci si può appropriare e manipolare secondo obiettivi eterogenei.
[8]La teoria del Recovery non suggerisce modalità di intervento terapeutico (ad esempio, non si pronuncia direttamente intorno a quale modello teorico e a quali prassi dovranno ispirarsi i servizi di riabilitazione territoriale). Questo è certamente importante in termini di pluralismo, ma si corre un rischio concreto che questo vuoto venga riempito dalla retorica dei modelli egemoni, che ci pare tendano a cancellare ogni particolarità soggettiva. Chiediamo dunque: come può un percorso di democratica acquisizione dei diritti sposare teorie ampiamente standardizzate che cancellano la specificità dell’individuo in nome dei protocolli e delle valutazioni rigide?
[9]Si veda S. Žižek, Contro i diritti umani, Milano, Il Saggiatore, 2005, e il libretto dello stesso autore Diritti umani per Odradek?, Milano, Nottetempo, 2005
[10] Le modalità attraverso cui può avvenire questo movimento sono diverse: ad esempio, come annessione di una nuova fetta di soggetti nell’ambito del sistema di acquisto, o tramite la costruzione di nuovi bisogni (ne chiarisce le dinamiche – tra gli altri – il lavoro della Scuola di Francoforte, in particolare con H. Marcuse), che partono dalle identità minoritarie per divenire categorie del mercato globale. Più in generale, diremmo che è però il diritto al godimento a caratterizzare la piena coesistenza del discorso tardo-capitalistico e di quello intorno ai diritti civili delle minoranze: in tal senso, il meccanismo che accomuna i vari discorsi è “Godi appieno del prodotto x”, o “della tua libertà”. A ciò seguirà una generalizzazione della struttura di quel meccanismo anche ad altri campi o ad altri gruppi, i quali potranno utilizzare/acquistare i diritti/prodotti messi a punto per rispondere alla domanda di un gruppo ristretto.
[11] A. Malinconico, A. Prezioso, op. cit.
[12] Si noti quanto la domanda rivolta da molti pazienti ai servizi pubblici sia “Ho bisogno di soldi/casa”; ovviamente, il piano concreto dell’esistenza è assolutamente centrale per sviluppare un benessere psico-fisico, ma ci pare che troppo spesso i professionisti si allineino alla stessa altezza, incontrando il fantasma che conduce ciascuno a non volerne sapere della propria esistenza inconscia e della sofferenza psichica, spostando tutto su un piano pratico più facilmente gestibile, ma profondamente statico e configurante il circolo vizioso della cronicità del bisogno.
[13] Definiamo con questa locuzione la cronicità degli ingressi nei reparti di psichiatria, il controllo sociale morbido fornito da alcune istituzioni che dovrebbero essere di cura, ecc.; insomma, ogni forma che non miri a un possibile cambiamento, ma alla amministrazione protocollare dell’esistente e alla tendenza a uniformare, piuttosto che a differenziare.
[14] Rifacendosi all’insegnamento di Lacan, intendiamo qui con “Altro” il luogo del codice, il sistema strutturato dentro il quale ogni soggetto reperisce le strutture della propria esistenza inconscia e relazionale. Nel senso utilizzato (più attinente alla clinica psicoanalitica), segnaliamo quanto la psicosi rappresenti un discorso all’interno del quale il soggetto è strutturalmente in balia dell’Altro, non articolando una dialettica di appropriazione e individuazione nei confronti di quella istanza.
[15]Tra i testi tradotti in italiano, suggeriamo: Psichiatria e psicoterapia istituzionale, Venezia, Marsilio, 1976; Babele e Pentecoste. La Borde e la scrittura della psicosi. Bologna, Spirali edizioni1982; Psicosi e logica istituzionale. “Il Collettivo”, Bologna, Spirali, 1988
[16] Intendiamo con questa definizione la serie di elementi che fanno parte di una terapia (anche di comunità terapeutica), ma che non sono annoverati tra gli interventi tecnici formali. Ad esempio, non si tratta della psicoterapie individuali o di gruppo, quanto piuttosto di elementi quali il transfert. Nel caso dell’istituzione di cura, quest’ultimo deve essere affrontato e discusso come un operatore teorico complesso, non essendo certamente istanza protocollare o su cui si può intervenire in direzione di una sua standardizzazione, ma occupando comunque un ruolo centrale nelle dinamiche terapeutiche e garantendo la tenuta e l’efficacia degli interventi specifici. Insomma, il transfert istituzionale è uno strumento potente, non direttamente elencato tra quelli specifici, ma che è necessario comprendere e utilizzare in qualità di catalizzatore e motore di una serie di elementi essenziali per una cura.
[17] È questo che ci fa sostenere con forza che il paziente grave deve poter usufruire di trattamenti terapeutici e residenziali, anche nel caso in cui i protocolli di valutazione lo escludessero per motivi di natura anagrafica, socio-economica, cognitiva, ecc.
[18] Si veda il lavoro e l’opera di Jean Oury.
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