L’editoriale di Benedetto Saraceno, direttore scientifico del Centro Studi SOUQ, che apre il numero 22 di SOUQuaderni.
La rivista online SOUQuaderni il relativo Annuario edito da Il Saggiatore entrano nel loro undicesimo anno di vita. I percorsi di riflessione della rivista e del suo Centro Studi sono venuti arrichendosi e mutando nel corso del tempo. Nascemmo dalla “Città Terapeutica” ossia dalla idea-utopia che la città possa divenire comunità di accoglienza capace di prendersi cura dei suoi sofferenti. Fu per noi fondamentale l’esegesi di Carlo Maria Martini sull’uomo di Gerasa (che, interrogato da Gesú che gli chiede il nome, risponde: “il mio nome è legione perché siamo tanti”). Ci siamo occupati di quella legione, di quei tanti resi uguali dalla disumanizzazione delle istituzioni, diffuse o addensate, che invece che prendersi cura separano, escludono. In principio fu davvero un monologo dei giusti.
Quando inventammo l’ossimoro della Sofferenza Urbana (di storie individuali e private collettivizzate nei “non luoghi” pubblici della città), quando fra i i primi raccontavamo e lottavamo insieme ai Rom e poi quando lanciammo l’allarme della involuzione della riforma psichiatrica, e infine più tardi, quando ci opponemmo alla trasformazione del mare Mediterraneo in discarica delle vite nude dei migranti e dei rifugiati: dieci anni di monologo, di militanza per il bene pubblico.
Perché monologo? Non perché noi fossimo gli unici (sarebbe atto di superbia e di stupidità volerlo affermare) ma perché i tanti monologhi restavano frammenti separati di buone volontà e di buone pratiche. Oasi che non erano capaci di divenire coro e dunque gesto politico.
Poi, in un crescendo entusiasmante, ci furono la Campagna Ero Straniero, la Campagna per la Salute Mentale e poi “Prima le Persone” e poi “Non una di meno” e poi “Fridays for Future” e poi la “Laudato sí” e la nascita della Associazione Laudato sí e poi, ora, da pochi mesi, le Sardine. Dunque, piano piano, le oasi delle buone volontà si sono parlate, si sono connesse non tanto attraverso un dialogo fra differenti leadership, ma piuttosto attraverso la trasversalità dei partecipanti: gli stessi che indossavano le magliette rosse di “Fermiamo l’emorragia di umanità”, esponevano le lenzuola contro Salvini e chi manifestava per Giulio Regeni si trovava in piazza a dire No ai decreti sicurezza. Dunque non sono i comandanti che si sono parlati ma piuttosto i soldati. E sarebbe necessaria una riflessione sulle implicazioni teoriche e pratiche della scienza politica a proposito di questa scomparsa dei leader (sostituiti da capipopolo) e la affermazione delle reti di cittadini.
Oggi forse possiamo cominciare a sperare in un movimento di opposizione capace di fare politica. Pensiamo di avere contribuito con il lavoro del Centro Studi SOUQ della Casa della Carità a questa evoluzione positiva e paradossale: nel momento in cui l’estrema destra è maggioranza nel paese e la ricostituzione della sinistra incomincia a prendere forma. Siamo nati, nel 2010, con l’idea che la nozione di Sofferenza Urbana rappresentasse efficacemente l’ossimoro che lega il privato delle sofferenze dei ciascuni al pubblico della città, ossia dei contesti urbani ove le vite dei ciascuni si declinano e si incontrano: storie di tanti che fanno storia collettiva. Ci pareva importante che la tradizionale frattura fra chi si preoccupa dei ciascuni (negando però la politicità collettiva delle sofferenze individuali) e chi si occupa dei molti, ossia delle categorie dei più vulnerabili, andasse saldata in un impegno che combinasse l’attenzione tenera al singolo e quella militante alla collettività: dunque, accompagnare i ciascuni a lottare con i tutti contro le istituzioni mortifere e contro le politiche ingiuste.
Ci diranno che siamo inguaribili Cattolici Comunisti? È possibile, anzi è probabile, poiché siamo sovente ispirati dal pensiero di Felice Balbo e dalla enfasi da lui posta sulla esigenza di “essere-vivere, non solo sopravvivere”, e sul fine ultimo di pienezza della esperienza soggettiva che costituiscono un aspetto centrale per lo sviluppo dei singoli e della contestuale promozione della comunità.Fra il 2010 ed oggi molte cose sono mutate e la realtà italiana e quella internazionale sono divenute sempre più feroci: l’aumento esponenziale dei fenomeni migratori, l’accelerazione drammatica dei mutamenti climatici, la infezione dilagante dei nazionalismi più fanatici, l’aumento inesorabile delle differenze fra ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri, l’impoverimento progressivo di una classe media pervasa di rancore. E così abbiamo incominciato a parlare di Resistenza. Ma non bastava “resistere”: bisognava aprire conflitti; e così abbiamo cominciato a riflettere sulle nuove forme del conflitto poiché quelle novecentesche che si realizzavano attraverso le grandi lotte operaie e i grandi scioperi del proletariato oppure con l’anarco-terrorismo delle avanguardie incapaci di guidare le masse, sono certamente forme di conflitto obsolete.Ci siamo anche chiesti cosa significasse oggi ritrovare il “corpo” individuale, “fisico” come strumento di lotta e conflitto: il corpo come segno di una messa in gioco radicale, il corpo come segno di quello “stare nel mezzo” di cui ci ha parlato la lezione di don Virginio Colmegna.
Conflitto sì, corpo nel conflitto sì ma, al tempo stesso, ci siamo chiesti se fosse possibile un conflitto mite, capace di trasformare la realtà senza violenza né fisica né verbale: in un mondo ove la ferocia delle parole e la violenza fisica crescente sembrano avere la meglio, è necessaria una capacità conflittiva durissima ma non violenta. Ci siamo insomma chiesti e continuiamo a interrogarci su come debbano e possano evolvere le forme del fare politica in un contesto ove prevalgono il linguaggio odioso e violento dei politici e dei media cui corrisponde una sostanziale assenza di una reale politica che non si limiti alla quotidiana e miserabile propaganda del Minculpop.
Lo squadrismo di molti politici di oggi non disonora soltanto loro, politici bugiardi, volgari, disposti a tutto per il loro potere personale, costruito sui gli intramontabili Dio, Patria (la difesa dei confini dall’ingresso dei bambini e delle donne che scappano dalla guerra? L’odio per l’ipotesi imperfetta ma indispensabile dell’Europa in favore dell’ipotesi da operetta della autarchia sovrana e fascista?) e Famiglia (un sistema valoriale che riporta le donne alla modestia che loro conviene, gli omosessuali allo stigma che meritano, che vede la famiglia come sistema produttivo di forza lavoro – “bambini per la patria” – come in ogni regime autoritario). Questo squadrismo è certamente il grado più intenso e pericoloso di una dilagante cultura della menzogna, della virtualità di Facebook che sostituisce la virtuosità del confronto vero e reale; è il segno di una assenza mortifera di visione per il paese, per la sua economia, per il suo sviluppo, per la sua scuola, per l’ambiente. Ma se Sparta piange, Atene non ride: le altre forze politiche in campo non sembrano avere un progetto politico né una visione del paese desiderabile e possibile e troppo spesso la cultura della propaganda (e del suo ministro o ex ministro) costituisce un modello cui troppi si riferiscono e che tutti inseguono.
Ma, allora, quali i laboratori possibili per tornare a fare politica? Quale relazione fra avanguardie e masse? Esistono le avanguardie? E’ necessario che esse esistano?
A tutt’oggi alla crisi della rappresentanza tradizionale realizzata attraverso i partiti politici non si è contrapposto che l’affermarsi di una idea primitiva di “capo” carismatico, populista,risolutore idolatrato dei problemi. Ossia, non si è venuta creando una alternativa credibile alla forma partito e alla sua gestione attraverso classi dirigenti: in alternativa alla classe dirigente delle democrazie parlamentari in crisi si sono affermati dei “caudillos” delle repubbliche delle banane privi di ogni credibile classe dirigente.
Ma se dobbiamo interrogarci su nuove forme possibili di formazione della classe dirigente, dobbiamo anche constatare che le “masse” non sono più costituite da una “classe operaia – classe di governo” ma da da un insieme eterogeneo e contraddittorio di gruppi sociali: una classe operaia in contrazione e frammentata, una piccola e media borghesia rancorose, una vasta popolazione di pensionati in silenzioso e implacabile aumento e con pensioni sempre più insufficienti e, last but not least, una gigantesca massa di disoccupati che costituiscono un mina vagante. La riflessione sulle nuove possibili forme del conflitto, violento o mite, e della azione politica ci ha condotti a incontrare una inconsueta radice profonda e solo apparentemente ingenua delle questioni, ossia, a considerare “cattiveria” e “bontà” come categorie politiche.La cattiveria è infatti lo strumento con cui lavora la politica autoritaria, quella al servizio dei pochi, quella che opera contro il bene comune; infatti la cattiveria si instilla e si installa con facilità e con rapidità e raggiunge il cuore delle persone attraverso scorciatoie facili e terribili. La cattiva politica è quella che promuove ignoranza invece che consapevolezza e una politica che promuove una collettività ignorante diviene facilmente una comunità dell’odio.La bontà invece segue percorsi “retti” ossia improntati alla rettitudine, ma essa cammina lentamente e fa fatica a raggiungere il cuore degli uomini e delle donne.Non è dunque possibile stare a guardare, bisogna “mettersi nel mezzo”, è urgente promuovere la conoscenza e la comprensione dei problemi, facilitare la informazione e consentire la liberazione di energia politica capace di generare conflitti che aprano i cuori al bene pubblico.
Scrivevo nel Editoriale di SOUQ del novembre 2019 che “Bontà e Mitezza escono con chiarezza dalla dimensione della passività, della sconfitta, del silenzio umiliato per trasformarsi in strumenti della politica: la bontà corporea e privata può diventare energia politica collettiva”. (Saraceno, Editoriale, SOUQuaderni, novembre 2019). Il possesso della terra promesso ai miti dalle “Beatitudini” indica che la mitezza costituisce la strada maestra per il ritorno del potere nelle mani degli ultimi che devono governare e devono custodire il mondo naturale insieme a tutti i suoi viventi.
Negli ultimi due anni ci siamo avvicinati, grazie alla enciclica Laudato sí, ai temi grandi e difficili del crisi climatica, dell’ambiente, della conversione ecologica e della necessità dell’affermarsi di economie circolari. Anche con lo stimolo degli amici della Associazione “Laudato sí” e della loro approfondita riflessione a tutto campo, abbiamo imparato a coniugare le idee generate dalle battaglie per l’ambiente e per la conversione ecologica a quelle per la giustizia e la inclusione sociale: scarti umani e scarti materiali sono entrambi prodotti dall’attuale modello di dominio economico e dalla cultura neoliberale e predatoria che promuove ingiustizia sociale e disastro ambientale.Abbiamo, ancora una volta, cercato di coniugare temi solo apparentemente diversi fra loro: esseri viventi e natura sono insieme le vittime degli stessi nemici e le consapevolezze politiche e le battaglie necessarie per contrastare questa tragica produzione di scarti umani e materiali sono le stesse.Cosí, in questo straordinario e continuo sommovimento di temi, idee, invenzioni e battaglie, il Centro Studi Souq, la sua rivista ed il relativo Annuario hanno compiuto dieci anni. E in questo lungo tempo certamente una parola ci ha sempre accompagnato, declinandosi in forme diverse ma sempre guidandoci: deistituzionalizzazione.Veniamo infatti dalla grande storia della Deistituzionalizzazione, ne siamo fieri e constatatiamo che, ancora una volta, vengono quotidianamente costruite (e propinate al “popolo”) nuove e vecchie pseudo identità che impediscono il fiorire delle soggettività ma invece autorizzano il ritorno di pratiche di reclusione diffusa o addensata. Si tratta di pratiche che trasformano il sogno del welfare nell’incubo dell’assistenzialismo miserabile e privatistico (e il terzo settore si è troppo spesso piegato a questo processo involutivo e procede con spensierata incoscienza verso la sua trasformazione in “business della miseria”). “La saga delle tribù identitarie che non esistono in natura ma che fanno comodo alle soluzioni spicce non si è mai arrestata” ” (Saraceno, 2019. Editoriale, SOUQuaderni, novembre).
Il “pubblico” delega e affida al “privato sociale” tutti gli scarti, quelli antichi e quelli nuovi: se negli anni delle lotte antimanicomiali dicevamo che era necessario ricostruire le storie individuali dei lungodegenti delle istituzioni totali, dare individualità, soggettività, senso e cittadinanza al “popolo senza nome” dei manicomi, oggi si sono moltiplicati i popoli senza nome. E’ necessario ridare storicità e senso a tribu intere di soggetti vulnerabilizzati dalla esclusione sociale e dalla perdita di diritti: migranti, poveri, homeless, tossicodipendenti, carcerati e malati, malati e carcerati, carcerati non malati, esclusi e scartati.Dunque, ritrovare oggi la parola Deistituzionalizzazione, il suo senso e la sua pratica è divenuto urgente. Ritrovare forme nuove di aggregazione che siano trasversali agli schiaramenti dei partiti tradizionali, ritrovare forme nuove di lotta che coniughino decise e molteplici forme di obiezione di coscienza e pubbliche manifestazioni pacifiche di dissenso; ritrovare anche l’esigenza di un “metodo” di comprensione e ricerca della e sulla realtà che faccia dubitare sistematicamente delle certezze e di tutte le pratiche cristallizzate e istituzionalizzate che accompagnano il lavoro di chi opera per il bene comune.In Franco Basaglia il discorso quando non si accompagna ad una trasformazione instancabile della realtà ma invece si cristallizza in un modello operativo di semplice ingegneria istituzionale, perde ogni senso. E questa lezione di Basaglia è la medesima lezione che ci ha insegnato e ci insegna Virginio Colmegna attraverso il suo sforzo, spesso frustrato dalla sua stessa realtà circostante, di non fermarsi a un modello codificato, di non accontentarsi di una idea acquisita ma di andare avanti sfidando ogni codificazione definitiva: avere la contentezza di non accontentarsi mai.
E, se di questa instancabilità è fatta la pratica della psichiatria antistituzionale come rivoluzione che programmaticamente rinvia il suo compimento, pena la negazione del proprio potere liberatorio, di analoga instancabilità devono essere fatte tutte le pratiche che si vogliono al servizio del bene comune.Le parole e l’opera di Franco Basaglia, di Virgino Colmegna, di Franco Rotelli, maestri della deistituzionalizzazione, fondano e alimentano il progetto di una civitas (ossia di una comunità di cittadini) in costante ricerca e mutazione. In assenza di tale progetto “civile”, qualunque efficienza organizzativa del modello, qualsiasi modello di buona pratica , divengono allora antagonisti alla necessità di impedire alle ricorrenti asimmetrie del potere di divenire prevalenti (potere di decidere delle vite degli altri, potere delle tecniche, potere delle ideologie).Anche per questo, una delle sfide piu’ innovative di Basaglia è il suo rifiuto alla codificazione dei modelli al fine di garantire la continuità della trasformazione: “Nel momento in cui le nuove tecniche incominciano, invece, a strutturarsi in una scienza organica…il margine di libertà necessario al processo di trasformazione viene a mancare” (Basaglia F. 1971. Riabilitazione e controllo sociale, in: Basaglia. Scritti II. Einaudi 1982,Torino).Questa instancabile provvisorietà del modello se offende ogni ratio d’“ordine” (“ratio borghese” direbbe Michel Focault), al contrario, assume di fatto la ratio del vero procedimento scientifico che è fondato sulla provvisorietà dei modelli e non sulla loro ideologizzazione.Don Virginio Colmegna ha recentemente usato la formula “Regaliamoci Futuro” per stimolare gli operatori di Casa della Carità a rilanciare strategie e pratiche innovative.Il Futuro troppo spesso spaventa e ci pare inevitabile e incontrollabile.Invece, si tratta di accogliere il Futuro come un regalo e dunque di non averne paura ma di osare piegarlo ai nostri sogni. Si tratta di marciare incontro e insieme al tempo.
“O tempo
só anda
de ida”
(traduzione: Il tempo viaggia solo all’andata)
Manoel Barros, poeta brasiliano, 1916-2014.
[Foto in apertura: Manoel de Barros – www.comunidadeculturaearte.co]