Diritti delle persone con disabilità: dall’etichetta all’etica – di Benedetto Saraceno
Psichiatra, professore ordinario di Global Health all’Università di Lisbona
La Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con Disabilità (CDPD) (United Nations, 2006), è stata adottata nel 2006 ed ha cominciato ad essere applicata nel 2008. I diritti affermati dalla Convenzione sono già presenti nei trattati internazionali sui diritti umani ma in questa specifica convenzione i principi generali di dignità, uguaglianza, non discriminazione, piena inclusione sociale sono applicati alle persone con disabilità, con la preoccupazione che la disabilità mai debba costituire un fattore di indebolimento dei diritti.
La CPDP sancisce un fondamentale e storico mutamento di paradigma, affermando in modo unitario e senza distinzioni i diritti delle persone con disabilità sia essa fisica oppure mentale. Inoltre, promuove un modello sociale di disabilità, cosicché essa cessi di essere solamente una condizione esclusivamente individuale, ma sia vista come la risultante di una vulnerabilità personale e delle risposte che la società propone alle persone con disabilità. In altre parole, la tradizionale distinzione fra diminuita abilità di un soggetto e le barriere che la società impone a tale soggetto, viene a cadere, mettendo in evidenza come la disabilità appartenga sia al soggetto sia alla società in cui esso vive; come dire, metà del danno in chi ne è portatore, ma metà insito e generato dalla comunità che lo circonda: così come “il discorso” secondo Montaigne: “La parole est moitié à celui qui parle, moitié à celui qui l’écoute” (Essais III, XIII : De l’expérience).
Dunque, le persone con disturbi mentali protratti nel tempo e portatori di una qualche disabilità, non sono più un gruppo vulnerabile separato e con diritti diminuiti o messo sotto tutela speciale. Questa comune appartenenza all’universale contratto sociale dei diritti costituisce un progresso sostanziale rispetto al tempo in cui la disabilità mentale veniva relegata in un limbo giuridico, non solo separato, ma sostanzialmente normato da leggi che avevano a che fare con la pericolosità sociale invece che, piuttosto, con il diritto alla inclusione sociale. Tuttavia, alcune associazioni di utenti della psichiatria hanno argomentato che ponendo la disabilità mentale insieme alle disabilità fisiche si rischia di ignorare il fatto che la malattia mentale non è altro che un costrutto sociale e che l’esperienza che definiamo psicotica è un legittimo percorso individuale che non può essere ascritto ad alcuna nozione di malattia o di deficit o di disabilità. Malgrado questi punti di vista piuttosto radicali, la Convenzione è stata accolta dalla maggioranza delle associazioni di utenti della psichiatria come un evento positivo e, anzi, molte associazioni hanno partecipato alla sua stessa elaborazione.
Personalmente, ritengo molto positivo che l’universo della salute mentale (operatori, familiari, utenti, amministratori) si affranchi da una certa autoreferenzialità e, anzi, si pongano le fondamenta, senza distinzioni, di un grande movimento per i diritti di tutte le persone con disabilità, sia che tali disabilità siano sensoriali, o motorie, o intellettuali o mentali. Certamente, ognuno di questi gruppi ha anche bisogni specifici e soffre di violazioni dei diritti specifiche, dalle barriere architettoniche per le persone con disabilità motorie all’esclusione sistematica e radicale dal mondo per le persone con gravi disabilità intellettuali o alle forme di coercizione fisica per le persone con disabilità mentali. Il vasto movimento per i diritti delle persone con disabilità avrà la forza della sua unità e la intelligenza delle proprie differenze.
Principi generali
I principi generali su cui si fonda la Convenzione sono sostanzialmente otto e riguardano tutti i tipi di disabilità:
- Il rispetto della disabilità come parte della diversità umana
- La non discriminazione
- L’uguaglianza di genere
- Il rispetto per i bambini con disabilità e del loro diritto a evolvere e preservare la propria identità
- Il rispetto per la dignità delle persone con disabilità ossia il diritto alla autonomia e la libertà di scegliere in piena indipendenza
- La piena partecipazione e inclusione sociale
- L’uguaglianza delle opportunità
- L’accessibilità ai servizi
La CDPD è un testo giuridico internazionale per molti versi innovativo, in quanto non si limita a sancire dei diritti “negativi” (diritto a non) ma promuove anche molti diritti “positivi” (diritto a), cosicché si affermano le opportunità ad abitare, a lavorare, a studiare come diritti e non come semplici aspirazioni.
Certamente, però, l’elemento più rivoluzionario della Convenzione è l’attiva e influente partecipazione delle stesse persone con disabilità nel processo di concezione, elaborazione e formulazione dei 50 articoli che la costituiscono. Anche gli utenti della psichiatria sono stati attivamente coinvolti e hanno svolto un ruolo di innovazione radicale: per una volta la compassata e spesso burocratica logica che caratterizza i processi all’interno del sistema delle Nazioni Unite ha lasciato il posto alla vivacità spesso conflittiva di un dibattito, per nulla compassato o troppo formalizzato. Sarebbe stato auspicabile che anche nel nostro paese, all’atto della ratificazione della Convenzione, il Parlamento avesse avuto il coraggio di aprire un dibattito nazionale aperto e coraggioso. Ma non è stato così.
Eppure, alcuni articoli della Convenzione hanno, o meglio avrebbero, se applicati, implicazioni sostanziali su tutti gli interventi di riabilitazione e di “care” per le persone con disabilità, definite nell’articolo 1, come tutti “coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri”.
L’articolo 12 sancisce l’uguale riconoscimento dinanzi alla legge. Si tratta di un articolo di importanza significativa poiché impegna gli “Stati Parti” (ossia i governi che hanno firmato e ratificato la Convenzione), a riconoscere che “le persone con disabilità godono della capacità giuridica su base di uguaglianza con gli altri in tutti gli aspetti della vita”. E non soltanto gli Stati Parti devono riconoscere tale uguaglianza ma devono anche adottare “misure adeguate per consentire l’accesso da parte delle persone con disabilità al sostegno di cui dovessero necessitare per esercitare la propria capacità giuridica […] e assicurare che le misure relative all’esercizio della capacità giuridica rispettino i diritti, la volontà e le preferenze della persona […]”.
L’articolo 12 della Convenzione afferma in una riga un principio radicalmente innovativo, quando stabilisce che “l’esistenza di una disabilità non giustifichi in nessun caso una privazione della libertà”. In altre parole, nessuno può essere sottoposto ad alcuna misura coercitiva della libertà “soltanto” in quanto portatore di una disabilità mentale o fisica: pensiamo ai molti, troppi, trattamenti sanitari obbligatori abusivi e soprattutto alle contenzioni o ai camerini di isolamento che si perpetuano, malgrado siano ormai stati dichiarati illegittimi, non solo dalla etica e dalla buona pratica psichiatrica ma, finalmente, anche dalla legge. E non dimentichiamo che a tali abusi non sono solo esposte le persone con disturbi mentali ma anche le persone con disabilità intellettuale e, infine, il grande esercito costituito dagli anziani nelle Residenze Assistite.
A proposito di contenzione o camerino di isolamento, ricordiamo che l’articolo 15 afferma con forza “il diritto di non essere sottoposto a tortura, a pene o a trattamenti crudeli, inumani o degradanti”. È interessante notare che gli operatori sanitari tendono a ignorare questo articolo (sempre che lo abbiano letto), poiché sono fermamente convinti che nei loro prestigiosi ospedali non si praticano certo tortura o trattamenti crudeli, inumani o degradanti! Queste, a loro parere, sono pratiche inesistenti in paesi moderni, democratici e civili come i nostri. Così pensano. Ma non vengono neppure sfiorati dalla idea che la Convenzione invece considera la contenzione fisica o il camerino di isolamento come pratiche inumane o degradanti. Ed è invece così, ed essere in un paese democratico e ad alto reddito non costituisce di per sé una garanzia per le persone con disabilità.
Per concludere l’analisi di questi pochi esempi di articoli della Convenzione, che dovrebbero trasformare radicalmente molta della assistenza che si pratica nel nostro paese, leggiamo l’articolo 19 a proposito di “Vita indipendente ed inclusione nella società”.
Questo articolo mette in questione la stragrande maggioranza degli interventi di riabilitazione e cura rivolti a persone con disabilità mentali, intellettuali e ad anziani non autosufficienti. Infatti, l’articolo stabilisce che gli Stati Parti debbano riconoscere “il diritto di tutte le persone con disabilità a vivere nella società, con la stessa libertà di scelta delle altre persone, e adottano misure efficaci ed adeguate al fine di facilitare il pieno godimento da parte delle persone con disabilità di tale diritto e la loro piena integrazione e partecipazione nella società, anche assicurando che: (a) le persone con disabilità abbiano la possibilità di scegliere, su base di uguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione; (b) le persone con disabilità abbiano accesso ad una serie di servizi a domicilio o residenziali e ad altri servizi sociali di sostegno, compresa l’assistenza personale necessaria per consentire loro di vivere nella società e di inserirvisi e impedire che siano isolate o vittime di segregazione…”.
Ecco la descrizione di un pianeta ben lontano da quello in cui viviamo, lontano ma necessario, lontano ma eticamente, tecnicamente e giuridicamente indispensabile. Non ci sono scuse: si deve applicare l’articolo 19 della Convenzione o meglio, si devono mettere in atto le misure per applicarlo, si deve costruire un calendario di applicazione, monitorare e applicare sanzioni, se necessario. Almeno questo.
L’applicazione
Ci si chiede allora quanto la Convenzione venga applicata nel nostro paese che non solo la ha firmata, il 30 marzo 2007, ma l’ha anche ratificata il 15 maggio 2009. Ricordiamo che la firma di un trattato internazionale è la semplice manifestazione di consenso che uno Stato esprime all’atto della firma. Tuttavia, la firma non stabilisce di per sé il consenso a essere vincolati dal trattato, ma si limita a esprimere un consenso di principio e a creare l’obbligo di astenersi da atti che vanificherebbero lo scopo del trattato. La ratifica, invece, esprime solennemente il consenso di uno Stato ad essere vincolato giuridicamente dalle prescrizioni contenute nel trattato o nella convenzione. Dunque, l’Italia, insieme ad altri 187 stati ha firmato e ratificato la Convenzione mentre solo 7 paesi non lo hanno voluto fare, e fra essi gli Stati Uniti d’America.
Per evitare che la Convenzione rimanesse lettera morta è stato istituito un organismo inter-governativo che costituisce una sorta di segretariato permanente attraverso cui gli Stati discutono ed esaminano lo stato di implementazione della Convenzione. Tale organismo è denominato Conferenza degli Stati Parti.
Alla Convenzione è stato annesso un Protocollo di 18 articoli che istituisce un Comitato sui Diritti delle Persone con Disabilità. Tale Comitato ha due funzioni, quella di monitorare l’implementazione della Convenzione, esaminando i rapporti inviati con cadenza quadriennale dagli Stati, e quella di esaminare tutte le segnalazioni di violazioni della Convenzione. È composto da 18 esperti indipendenti che si riuniscono tre volte all’anno e che sono eletti dalla Conferenza degli Stati Parti. Infine, è stata creata la figura dello Special Rapporteur sulla Disabilità che riferisce annualmente al Segretario Generale delle Nazioni Unite. Come si vede, sono stati istituiti tre organismi deputati a proteggere e monitorare la Convenzione.
Il punto di vista delle persone con disabilità mentale è molto rappresentato nel Comitato sui Diritti delle Persone con Disabilità e, dunque, la voce delle organizzazioni internazionali degli utenti della psichiatria è divenuta molto influente. Tale influenza ben si coglie nella interpretazione degli articoli della Convenzione che risente fortemente della visione spesso molto radicale di organizzazioni quali ENUSP (European Network of Users and Survivors of Psychiatry), WNUSP (World Network of Users and Survivors of Psychiatry) e MFI (Minfreedom International). La radicalità di alcune posizioni ha suscitato non poche controversie e non solo con l’establishment conservatore della psichiatria, ma anche con esponenti progressisti del movimento globale di salute mentale (Szmukler, 2019; Freeman e coll., 2015). Le questioni su cui il dibattito e le controversie sono più accesi sono quelle relative alla interpretazione della nozione di “capacità” e dei suoi possibili limiti e alle definizioni di “migliore interesse della persona” e di “volontà e preferenze”.
È comunque interessante notare come il dibattito e le differenze fra interpretazioni più o meno radicali si concentri su concetti inerenti alla capacità di decidere ma non su questioni inerenti al diritto a non essere abusato fisicamente. Su questo, per fortuna, non c’è controversia alcuna e l’opinione è concorde: la contenzione fisica non è ammissibile.
La situazione italiana
Ma di questa Convenzione e del grande dibattito internazionale intorno ad essa, in Italia non si parla e la ragione è molto semplice: la Convenzione è sostanzialmente ignota o ignorata nel nostro paese. Troppo spesso in Italia si assiste a dibattiti su questioni che non dovrebbero più essere materia opinabile, in quanto sono regolate da leggi vigenti, inclusa la Convenzione di cui qui parliamo. Va ricordato, infatti, una volta per tutte, che tutte le convenzioni internazionali firmate e ratificate dal parlamento hanno valore di legge. Ma tutto questo sembra interessare assai poco agli operatori della psichiatria e agli amministratori pubblici: sono molto pochi (o forse nessuno) gli infermieri, i medici, i geriatri, gli psichiatri e i direttori di strutture residenziali che conoscono e applicano con rigore la Convenzione, pur essendo questa una legge.
Gli esempi di violazione dei diritti sanciti dalla Convenzione, nelle istituzioni residenziali psichiatriche e per disabili o per anziani non autosufficienti, sono migliaia e sono denunciate da anni ma, curiosamente, le associazioni professionali si limitano a dichiarazioni generali e di principio sull’etica dei trattamenti, ma mai si propongono come parte attiva nel denunciare e nel collaborare con gli organismi giudiziari nazionali o internazionali, né sono sollecite nel favorire il lavoro degli attivisti dei diritti umani, spesso visti come disturbatori che cercano lo scandalo e mai come esponenti della società civile che rivendicano i diritti dei più vulnerabili e senza voce.
Le istituzioni psichiatriche per adulti pubbliche e private, le istituzioni specializzate per bambini e adolescenti con disabilità intellettuale o per anziani con demenza sono spesso ancora luoghi di miseria, violenza, abuso.
Se questo è il cosiddetto “moral case” secondo la definizione di Patel, Saraceno e Kleinman (2006), non v’è dubbio che affrontarlo non è solo una questione di mutamento di attitudini e pregiudizi individuali ma anche e soprattutto è una questione di mutamenti radicali delle politiche per la disabilità, delle legislazioni connesse e delle organizzazioni dei servizi che si devono occupare di persone con disabilità, offrendo loro risposte umane, dignitose, giuste, efficaci. Gli allarmi lanciati nel 2013 e nel 2016 dagli Special Rapporteurs delle Nazioni Unite rimangono sempre validi (United Nations, 2013, 2016).
Tuttavia, malgrado la Convenzione, in Italia si continua a legare (Del Giudice, 2015) e non solo nei servizi di Diagnosi e Cura ma anche nelle molteplici tipologie di residenzialità, dai matti ai vecchi, passando per i minori disabili, tutti sono esposti al rischio di essere contenuti al proprio letto.
Per fortuna la Corte di Cassazione V sezione, sentenza 20 giugno 2018, n. 50497, ha stabilito che la contenzione non ha natura di “atto medico” in quanto quest’ultimo ha la finalità di realizzare un “beneficio per la salute, bene tutelato dall’articolo 32 della Costituzione, che consente di fornire copertura costituzionale all’atto medico“. La contenzione meccanica, afferma la Corte, mette invece in atto un “presidio restrittivo della libertà personale che non ha né una finalità curativa né produce materialmente l’effetto di migliorare le condizioni di salute del paziente”. Questo significa che i sanitari che utilizzano di routine la contenzione meccanica “sottopongono il paziente a una illegittima privazione della libertà personale”, configurando il reato di sequestro di persona, ex art. 605 CP”(Saraceno, 2021).
Ma, indifferente e arroccata, la psichiatria ufficiale resiste, non prende posizione nei fatti ma si limita a enunciazioni di principio. L’establishment psichiatrico e quello accademico in prima fila non promuovono la Convenzione, ma la subiscono in passivo silenzio. Si tratta di una grande occasione perduta, occasione morale, giuridica, tecnica e politica che mostra e dimostra ancora una volta l’opacità morale della psichiatria. Non si vuole promuovere, informare, fare conoscere, fare corsi, istruire, educare, quando invece si avrebbe la splendida opportunità di celebrare una legge che afferma innanzitutto il diritto di avere dei diritti, il che non è poco quando ci si riferisce a una popolazione che non solo è stata e continua a essere deprivata di molti diritti, ma per cui si sono financo invocate “ragioni scientifiche” per tale statuto di diritti amputati (e le incongruenze, gli abusi, gli arbitri che riempiono le pagine delle perizie psichiatriche ne fanno ampia testimonianza).
Infatti, nella Convenzione, per la prima volta, i diritti delle persone con disabilità mentale sono assimilati ai diritti delle persone con disabilità fisica ponendo così fine a una discriminazione che sussisteva anche all’interno dello stesso mondo delle disabilità. Nella Convenzione, per la prima volta, non si afferma soltanto la protezione dalla violazione dei diritti ma si afferma anche la promozione dei diritti: non si tratta dunque soltanto di evitare violazioni dei diritti ma anche di promuoverne l’esercizio.
Ma allora, di cosa abbiamo ancora bisogno per restituire diritti ai disabili fisici e/mentali nelle istituzioni o negli ospedali? È proprio grazie alla Convenzione che l’“etichetta” dei diritti umani affermati con insopportabile retorica e al tempo stesso violati dalle istituzioni per disabili, cessa finalmente di essere una “piccola etica”, etichetta del ben comportarsi in società, per inverarsi in Etica pratica. La conoscenza e la rigorosa applicazione della Convenzioni delle Nazioni Unite non è dunque un optional internazionale, ma un dovere nazionale.
Referenze
- Del Giudice Giovanna. E tu slegalo subito. Edizioni Alphabeta Verlag, Merano, 2015.
- Freeman MC, Kolappa K, Caldas de Almeida JM, Kleinman A, Makhasvili N, Phakathi S, Saraceno B, Thornicroft G. (2015). Reversing hard won victories in the name of human rights: a critique of the General Comment on Article 12 of the UN Convention on the Rights of Persons with Disabilities. Lancet Psychiatry. Sep;2(9):844-50.
- Patel V, Saraceno B, Kleinman A (2006). Beyond evidence: the moral case for international mental health. Am J Psychiatry 163:8, 1312-5.
- Saraceno B. (2021). Convenzioni internazionali e diritti negati. Salute Internazionale. 24 maggio.
- Szmukler G. (2019). “Capacity”,” best interest”, “will and preferences” and the UN Convention on the rights of Persons with Disabilities. World Psychiatry. Feb 18 (1):34-41.
- United Nations. Convention on the Rights of Persons with Disabilities. http://www.un.org/disabilities/convention/conventionfull.shtm. New York, 2006.
- United Nations Human Right Council. Report of the Special Rapporteur on torture and other cruel, inhuman or degrading treatment or punishment. New York, 2013.
- United Nations Human Right Council. Report of the Special Rapporteur on the right of everyone to the enjoyment of the highest attainable standard of physical and mental health. New York, 2016.
[L’immagine di apertura è di Jens Theeß su Unsplash]