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Aboubakar Boris Diop al convegno SOUQ

“Stereotipi, caos e resurrezione. Riflessioni sull’afropessimismo”. Leggi il testo della lectio magistralis tenuta dallo scrittore senegalese Aboubakar Boris Diop al convegno del Centro Studi SOUQ il 14 gennaio 2019, all’università IULM.

Le idee acquisite su una comunità o su un più vasto insieme di uomini si distinguono per il loro carattere ampio e generalizzante. Per non allontanarci troppo dalle coste italiane, potremmo usare

come esempio il “migrante africano”. Questi è morto ben prima che le televisioni ne mostrassero il corpo alla deriva delle acque del Mar Mediterraneo, in quanto non è mai veramente esistito come singolo individuo. È percepito come colui che viene da lontano e resterà sempre una figura remota e torbida. Corpo e anima devastati dalla miseria, è Nero e africano, ovvero associato al continente che Stephen Smith, autore razzista francese, ha osato definire in Négrologie, “Paradiso naturale della crudeltà”. Parafrasando Frantz Fanon, il migrante anonimo è uno di quei “Dannati del mare” che da qualche anno tormenta il sonno dell’Occidente. Il sentimento che l’Africa sia un luogo come nessun altro non è nuovo. La sua persistenza, persino il suo peggioramento dei giorni nostri, sono invece più misteriosi. Il razzismo, si sa, si nutre fondamentalmente dell’ignoranza dell’Altro. Questa ignoranza, ormai trasformata in presunti fatti e false conoscenze dai media molto influenti e dai social network, permette di comprendere la negrofobia ordinaria, diventata al tempo stesso così banale e noiosa.

Ma come spiegare il fatto che gli africani stessi sono così pronti ad adottare i più spregevoli cliché razzisti sui negroafricani? A mio parere, un termine poco conosciuto al di fuori dei circoli accademici può consegnarci la soluzione di questo enigma. E questo termine è afropessimismo. Permettetemi di soffermarmi un istante su questo termine. Sebbene entrato nel linguaggio comune, questo neologismo non compare in alcun dizionario di lingua francese e, inoltre, riguarda solamente l’Africa a sud del Sahara, detta anche “Africa nera”. Lo si utilizza per riferirsi ad alcuni saggi sull’Africa scritti alla fine degli anni ’80 da Daniel Etounga Manguelle (L’Afrique a-t-elle besoin d’un programme d’ajustement culturel ?), Kä Mana (L’Afrique va-t-elle mourir ?) e soprattutto Axelle Kabou (Et si l’Afrique refusait le développement ?).

Questi testi avevano una doppia originalità: prendevano le distanze dallo slancio di ottimismo forsennato suscitato dalla decolonizzazione e si riappropriavano del discorso critico sull’Africa da parte degli intellettuali africani, fino a quel momento

appannaggio degli Occidentali di cui L’Afrique noire est mal partie, dell’agronomo francese René Dumont, pubblicato nel 1962, ne era il modello. Dumont perorava l’agricoltura, esortando l’Africa ad allontanarsi dagli schemi di sviluppo occidentale e da una certa tendenza all’ipertrofia burocratica.

Le tre opere fondatrici di questa corrente di pensiero diffusa e inspiegabile sono apparse nel 1991, ovvero subito dopo la caduta del muro di Berlino.

Semplice coincidenza? Ne si può dubitare fortemente…

I giovani autori incolleriti descrivono un’Africa che vive di aiuti internazionali, dove epidemie e atroci guerre civili sono il destino di popolazioni afflitte dalla miseria. Questa constatazione non aveva niente di originale. Ciò che c’è di nuovo nell’afropessimismo è il rifiuto di considerare l’Occidente responsabile, per quanto poco, del disastro africano. Per Manguelle, Kä-Mana et Kabou, rievocare in continuazione la tratta degli schiavi e la colonizzazione per gli africani equivale ad atteggiarsi a eterne vittime invece assumersi la responsabilità della propria storia. Con l’ansia dell’obiettività scientifica e dell’efficacia, si mettono alla ricerca di risposte endogene e giungono alla seguente conclusione: la cultura africana è il vero problema dal momento che rende impossibili i cambiamenti di mentalità necessari allo sviluppo economico. In che modo quindi sarebbe un ostacolo? Si evocano quindi alla rinfusa l’esempio dell’africano al potere o il fatto che la sua fedeltà vada alla tribù o addirittura alla famiglia prima ancora che allo stato. In queste opere si parla molto anche della concezione africana del tempo che in Africa sarebbe sempre percepito nella sua immediatezza, da cui deriva l’incapacità di pianificare a lungo o medio termine. È anche il tempo dello svago infinito, che si traduce in danze e festività interminabili a scapito del lavoro! Quest’ultima osservazione rimanda all’idea che gli africani siano geneticamente pigri. La letteratura afropessimista insiste infine sul ricorso alla stregoneria e al cannibalismo in Africa. In breve, secondo questa chiave di lettura, l’oscurantismo, il rifiuto dello sforzo e la feticizzazione di tutte le forme di autorità sociale – i giovani obbediscono agli anziani, le donne agli uomini e tutti si sottomettono al capo – dà origine a società di essenza totalitaria in cui la logica di predazione economica e finanziaria aggrava la povertà.

Questa sintesi è inevitabilmente lacunosa. Mi sono tuttavia sforzato di non tralasciare nessun aspetto importante del pensiero afropessimista.

Sebbene affronti i problemi in modo semplicistico, si può rispettare l’analisi critica dell’afropessimismo. I suoi testi fondatori hanno permesso di sentire nuove voci, determinate a scuotere conformismi e consensi troppo deboli. Nel clima della Guerra Fredda era consuetudine, infatti, riportare tutto al cosiddetto paradiso edenico dell’Africa e predirle, in modo assolutamente affabulatorio, un futuro radioso proprio quando il caos regnava sovrano ovunque. In controtendenza rispetto alla visione dell’Africa quale paradiso prima della conquista coloniale, l’afropessimismo ha insinuato il dubbio in alcuni intellettuali obbligandoli ad analizzare più approfonditamente il continente e a meglio sostenere il loro punto di vista. In pratica a spingersi oltre stereotipi riduttivi.

Non possiamo neanche rinfacciare all’afropessimismo di aver inventato fatti così essenziali alla sua analisi come la stregoneria, il rapporto con il divino, la sottomissione all’autorità e il tribalismo. È evidente a tutti che la violenza politica in Africa resta un fenomeno reale, innegabile. Non detiene certo il monopolio, ma il fatto che la violenza nei confronti dei deboli imperversi ovunque su questa terra, non può né giustificarla né scusarla in nessuna parte del mondo. Si può dire lo stesso della corruzione e di tutti gli altri difetti generalmente attribuiti all’Africa. Secondo un proverbio wolof ricco di buon senso, dire “non è solo colpa mia” è più un’ammissione di colpevolezza che una prova di innocenza…

La presa di posizione di questi saggisti ha infine offerto, in teoria, la possibilità importante di far uscire l’Africa dal dibattito sul vittimismo/pentimento.

Tuttavia, queste opere, che hanno suscitato un vespaio, sono state accolte solo emotivamente, cosa che all’epoca ha impedito di leggerle con attenzione. Oggi capiamo meglio fino a che punto sono superficiali, mal concepite e poco convincenti.

I loro autori hanno certamente avuto coraggio. Ma a cosa serve il coraggio se manca la lucidità a tal punto? Inoltre, a cosa serve un’analisi sull’Africa se si amputa il continente di tutta la sua parte settentrionale? Adottando questo approccio, senza volerlo hanno incoraggiato una lettura puramente razziale dei complessi processi politici ed economici.

E in ogni caso, l’Africa subsahariana stessa non è un insieme omogeneo. Prendo il mio caso come esempio. Sono senegalese: questo non vuol dire nulla? La mia storia, il mio rapporto con gli altri sarebbero stati molto diversi se fossi nato in Zaire, Burundi o Burkina Faso. Fare di me un “Africano” che si confonde in una massa indifferenziata mi priva della mia storia, del susseguirsi di fatti e casualità – mi riferisco alle guerre, ai grandi movimenti migratori, persino alle catastrofi naturali, alle tragedie come la tratta degli schiavi e la colonizzazione o addirittura ai grandi avvenimenti sportivi – che hanno finito per costituire, nel dolore e nell’incertezza, la nazione senegalese. Con il suo approccio antistorico, l’afropessimismo ha legittimato una confusione cronica a proposito del continente africano, spesso visto da menti brillanti come un solo e unico paese. La cosa strana è che questo tipo di ragionamento sembra essere riservato solo all’Africa. A nessuno verrebbe in mente di considerare il governo di Nuova Delhi responsabile di quello che succede in Pakistan, e viceversa. L’esempio non è lasciato al caso: l’India e il Pakistan formavano realmente un solo e unico paese fino al 1947. Analogamente, chi oserebbe equiparare le situazioni politiche in Cecenia e in Italia o confondere l’Ungheria con la Svezia o la Francia? Questa generalizzazione illegittima ha effetti perversi: essendo l’Africa globalmente sinonimo di fallimento, gli Stati che compiono sforzi per risolvere i loro problemi economici e sociali non sono considerati.

Ma può essere che il più grosso errore dell’afropessimismo sia stato intervenire troppo rapidamente. Si è prodigato a processare l’Africa dopo solamente 30 anni di indipendenza – dopo secoli di contatto particolarmente atroce e distruttivo con l’Europa. È stato quanto meno prematuro. Rileggendo i testi di questi autori, colpisce la loro tendenza a guardare in prospettiva e a prevedere, già allora, la morte imminente del continente africano. Non saremo così crudeli da suggerire a demografi, politologi ed economisti di riprendere oggi queste previsioni e di confrontarle ai fatti. Col senno di poi, si rivelano presuntuose e quasi comiche.

Siamo tutti liberi di formulare dei giudizi su un paese o contestare un progetto specifico (“euroscetticismo”), ma non ha alcun senso pretendere di mettere sulla stessa barca tutti gli stati di un continente così grande, dislocato e diverso come l’Africa. A eccezione di un concetto debole e generalista, non resta molto di questo tentativo, seppur lodevole e legittimo, di ripensare dall’interno al destino dell’Africa. Si potrebbe addirittura dire, senza cattiveria, che la corrente afropessimista abbia provocato molto rumore per nulla. Questo discorso debilitante continua a fare danni, in particolare tra i giovani che mancano di punti di riferimento. Ha anche rinforzato una visione negativa dell’Africa di cui si avrebbe torto sottovalutare gli effetti devastanti, in particolare in Ruanda nel 1944: se la comunità internazionale ha rifiutato di prestare aiuto a più di un milione di ruandesi innocenti, è anche perché i responsabili dell’ONU e di altre istanze hanno letto queste opere di insostenibile leggerezza a dispetto delle loro pretese scientifiche. Alcuni autori occidentali vi fanno riferimento di continuo, come a dire: vedete, non sono io ad avere pregiudizi nei confronti degli Africani, non faccio altro che riportare le parole di Axelle Kabou, Etounga Manguelle e compagnia bella. Da qualche parte, sul fondo del cassonetto dei rifiuti della storia, il razzismo e l’afropessimismo sono seduti l’uno accanto all’altro e si tengono per mano, come due vecchi amici.

Certo non si può certo riassumere tutta una realtà politica diffusa, contraddittoria e mutevole in un solo concetto. Eppure, se il razzismo ha consapevolmente permesso la tratta degli schiavi, la schiavitù e poi la colonizzazione, l’afropessimismo è al centro delle tragedie africane contemporanee. Poco fa ho fornito l’immagine del migrante e parlato del Ruanda, ma bisognerebbe comunque cercare di comprendere attraverso questa chiave di lettura quello che è successo in Costa d’Avorio, in Libia e nel Mali. Quando gli stereotipi prendono piede, regna il caos: l’Africa è terra dilaniata e omicida, e l’Occidente deve svolgere il suo nobile e storico ruolo, che è quello di porre fine a tutti i disordini sulla terra. Ma alla fine le forze vive delle nazioni africane si lanciano in un impulso suicida all’assalto dell’Europa e, per riprendere l’immagine di un racconto di Pap Khouma, venti mila di loro vivono sotto l’oceano. O più esattamente, purtroppo: sono inghiottiti dall’oceano…

Qualche attivista africano, poco propenso all’autodenigrazione afropessimista – con il pretesto del coraggio intellettuale – ha presto stabilito una relazione tra il caos prefabbricato in Africa da alcune potenze occidentali e il fatto che oggi la crisi migratoria, così profonda, sembra quasi irrisolvibile.

In breve, gli stereotipi giustificano il caos che a sua volta rinvigorisce gli stereotipi in un tragico e perpetuo circolo vizioso di autoconferma… Si impone dunque un paziente lavoro di ricostruzione agli esseri umani di buona volontà.


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