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LA SFIDA ABITATIVA PER I PROFUGHI AFGHANI A MILANO NEL 2023

A Milano oggi è diventato impossibile trovare alloggio, sia per la classe media ma soprattutto per le nuove famiglie che vogliono stabilirsi in città. Come i profughi afghani arrivati nel 2021. Ne abbiamo parlato con il nostro operatore don Alessandro Maraschi.

Nel 2022, nel suo discorso alla città, l’arcivescovo di Milano Mario Delpini, parlando di come sta cambiando Milano, si chiedeva: «Dove troveranno casa le famiglie giovani, il futuro della città? Dove troveranno casa coloro che in città devono lavorare, studiare, invecchiare?».

Un anno dopo, con i prezzi delle case in continua crescita, questa domanda è ancora attuale e riguarda anche quelle persone e famiglie che a Milano sono arrivate dopo la fuga da un paese in guerra, che in questa città hanno scelto di vivere, lavorare e crescere i loro figli.

Stiamo parlando, in particolare, dei profughi afghani accolti dalla Casa della Carità nel 2021, dopo essere scappati dal loro Paese in seguito al ritorno al potere dei talebani.

In cerca di casa a Milano: la difficile sfida delle famiglie afghane

Oggi per loro trovare una soluzione abitativa a Milano si sta dimostrando un’impresa impossibile.

Ne abbiamo parlato con padre Alessandro Maraschi, coordinatore del progetto di accoglienza per profughi afghani della Casa della Carità: «Le famiglie che ospitiamo dal 2021 stanno finendo il loro percorso di accoglienza all’interno del SAI, il Sistema di Accoglienza e Integrazione dedicato ai rifugiati e dovranno lasciare gli appartamenti in cui si trovano. Già da diversi mesi siamo impegnati insieme a loro per cercare una soluzione abitativa: abbiamo bussato a tante porte, a partire da quelle del sistema pubblico, che però è intasato, fino al mercato privato, ma i prezzi sono proibitivi», racconta.

Gli ospiti, insieme a operatrici e operatori dell’équipe di accoglienza non si danno per vinti: «Stiamo lavorando tanto e stiamo chiedendo anche alle famiglie di impegnarsi per trovare una soluzione. Quando possibile, stiamo chiedendo una proroga per l’accoglienza nel SAI e anche chi è arrivato all’ultima scadenza non è stato mandato via, ma la Casa della Carità si sta facendo carico della loro ospitalità», spiega padre Maraschi.

Non si tratta, in questi casi, di famiglie che si sono ritrovate in povertà e quindi in emergenza abitativa, come abbiamo raccontato insieme alla responsabile del Settore Disuguaglianze e nuove povertà della Casa della Carità, Donatella De Vito. Sono invece famiglie che hanno un buon lavoro e uno stipendio normale, che però non basta più per vivere a Milano.

Alloggi inaccessibili a Milano: la crisi abitativa

In città mancano infatti alloggi in affitto per chi non è povero, e non ha quindi accesso all’edilizia pubblica, ma non è nemmeno ricco, ma non trova nulla sul mercato libero, perché questo ti chiede di spendere per la casa la metà del tuo stipendio.

«C’è tutta una fascia di famiglie lavoratrici, anche giovani famiglie italiane, che vogliono vivere la città, la fanno vivere e servono alla città, ma questa li espelle, dice ancora padre Alessandro.

Che aggiunge: «I nostri ospiti afghani hanno fatto un percorso di inclusione sociale e ora ne stanno raccogliendo i frutti: lavorano qui e fanno spesso lavori di cui Milano ha bisogno; i loro figli vanno a scuola qui e loro vorrebbero mettere le loro energie a servizio di questa città, dove vorrebbero continuare a vivere perché ormai si sentono cittadini milanesi. Ma purtroppo non ce la fanno».

Il rischio è che debbano trasferirsi molto fuori Milano. E questo sarebbe problematico, perché: 

  • si romperebbero i legami che in questi due anni hanno costruito in città 
  • spesso queste persone fanno lavori che cominciano all’alba e andando ad abitare lontano da Milano non arriverebbero in tempo

È il caso per esempio di Kambiz, che lavora come addetto alla sicurezza dei treni, che deve essere in Stazione Centrale alle 6 del mattino. O di Sadia, una giovane donna afghana, che ha fatto diversi corsi di formazione e tirocini, che oggi è assunta come pasticcera in un’importante catena, ma deve essere al lavoro alle 7 del mattino. «Loro sono disponibili anche a fare dei sacrifici, ma come fanno ad arrivare in tempo al lavoro, se devono trasferirsi a 50 km per potersi permettere un alloggio?», si chiedono gli operatori che stanno seguendo le famiglie afghane.

Riflette ancora padre Alessandro: «La domanda che ci facciamo come Casa della Carità è che tipo di città stiamo costruendo, perché quando allontani la classe media, le persone che lavorano, i nuovi cittadini che vorrebbero radicarsi, si erode quel tessuto che mantiene la città viva e vitale, impoverendola e generando anche, a lungo andare, problemi di sicurezza».

Che cosa possiamo fare?

Oltre agli interventi che può mettere in campo la politica, secondo padre Alessandro molto si può fare molto anche dal basso.

Racconta infatti: «Quando si parla di affitto ci si scontra spesso con la preoccupazione, da parte dei proprietari di case, che l’affittuario poi non paghi. È capitato anche a noi, nella ricerca di una casa per i nostri ospiti, che all’ultimo uno dei proprietari si tirasse indietro, nonostante la persona che cercava casa abbia un contratto a tempo indeterminato, abbia 6 mesi di affitto pagati dal Comune e la Casa della Carità faccia da garante».

E conclude: «Queste preoccupazioni sono legittime, perché sicuramente ci sono anche persone disoneste, ma ci siamo invischiati in una dinamica di sfiducia verso l’altro, in cui il perno è il denaro, che non basta mai. Dobbiamo invece ricreare ponti di fiducia tra le persone e sui territori, perché – sono convinto – questi possono agire come moltiplicatore di cose buone».

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