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Romano Prodi al convegno SOUQ

“Le crescenti disparità in un mondo ancora in crisi”. Leggi il testo della lectio magistralis tenuta da Romano Prodi al convegno del Centro Studi SOUQ il 26 novembre 2014 all’Università Bicocca di Milano.

La tematica che affronteremo oggi, in questa bella sede universitaria arricchita dalla presenza di tanti giovani studenti, è la disparità. Per farlo occorre subito comprendere l’economia di oggi, partendo da un punto di vista globale.

Com’è l’economia oggi?

Complessivamente il tasso di sviluppo, nel mondo, si aggira intorno ad un 3,50%. Rispetto alla media degli ultimi anni è un tasso di sviluppo leggermente inferiore, ma non disperatamente inferiore. L’anno che viene quindi può essere definito non cattivo e non buono allo stesso tempo. Il nodo cruciale, in realtà, è che esistono enormi diversità all’interno di questo livello di sviluppo. Per comprendere meglio dobbiamo, innanzitutto, considerare una parte dell’Asia, con la Cina in testa, e gli Stati Uniti d’America, ossia paesi le cui economie vanno molto forte.

La Cina, in questo periodo, si sviluppa al 7%, rispetto al 10 % del passato. Questo tasso non è basso in assoluto e, tengo a sottolineare, che essendo la Cina un paese a medio sviluppo, il dato rappresenta, in realtà, molto di più del 10% del passato. La Cina quindi continua ad essere il fenomeno dell’economia mondiale e, probabilmente, continuerà ad esserlo ancora in futuro.

Gli Stati Uniti d’America rappresentano l’altra sorpresa in atto nel panorama economico. La loro ripresa, molto forte, è andata oltre le aspettative grazie a fenomeni concomitanti. Innanzitutto l’energica politica economica messa in atto per affrontare e uscire dalla crisi. Contrariamente all’Europa, che ha tentennato con mille indecisioni, gli Stati Uniti hanno continuato con il “quantitative easing”, investendo 800 miliardi di risorse. In secondo luogo gli Stati Uniti stanno vivendo il fenomeno che letteralmente sta cambiando la faccia del mondo e che si profila come una nuova ‘giovinezza energetica’. Mi riferisco al ‘shale gas-shale oil’: potrebbe sembrare un fatto marginale, ossia un fenomeno che riguarda un solo settore ma, in realtà, ad esso sono connesse decine di migliaia di nuovi posti di lavoro. Inoltre il un nuovo sistema di estrazione del gas e del petrolio potrebbe fare, in un futuro immediato che dipenderà solo dalle scelte politiche, degli Stati Uniti, fino ad oggi uno dei più grandi importatori di energia diventati ora autosufficienti, un paese anche esportatore. Intendo dire che il fenomeno non si limita semplicemente all’energia, ma attiva conseguenze di grande portata: l’industria petrolchimica si sta spostando dal Golfo d’Arabia al Golfo del Messico e tutte le industrie energetiche, persino i produttori italiani di piastrelle e di ceramiche, si stanno spostando verso gli Stati Uniti. Il motivo? Gli Stati Uniti vendono il gas metano ponderato sull’unità di misura che si chiama British Thermal Unit, a 4 dollari, mentre da noi è a 12 e in Cina e Giappone risulta a 16 dollari: questo significa, letteralmente, un ribaltamento del mondo.

C’è poi l’Africa da tenere considerazione a livello globale: in questo continente sono ormai una decina di anni che abbiamo tassi di sviluppo decenti, attorno al 4%-5%. La comparazione dei tassi parte da livelli talmente bassi che questa crescita non ci consente di poter parlare di “rinascimento africano”. Saranno necessari, probabilmente, 30 anni perché si possa parlare di un effettivo rinascimento del Continente africano. Ma, di nuovo, occorre tenere a mente la storia del paese: ad oggi, nella quota mondiale, il prodotto africano è uguale a quella del 1980. Tuttavia ora l’economia africana, rispetto al continuo peggioramento del passato, sta decisamente meglio. Questo è da considerare un elemento di speranza. E questa speranza ha più valore se si considerano i drammi dell’ineguaglianza che il Continente vive.

L’Africa ha sviluppo demografico impressionante: i suoi abitanti oggi sono un miliardo e a metà del secolo saranno almeno raddoppiati. Inoltre il tasso di natalità dell’Africa sub-sahariana non cala, la popolazione aumenta a livelli vertiginosi e questo dato va associato a quello della mortalità infantile che invece è di segno opposto e sta calando. Per darvi solo un dato di struttura dell’Africa, a confronto con quello del nostro paese, ossia di un paese europeo: in Italia – dove di fatto abbiamo 1,3-1,4 bambini per donna, l’età mediana è di 45 anni; in Niger, o ancora in Burkina Faso, è tra i 17 e i 18 anni. Comprendete bene che società diversa sia: metà dei nigeriani e metà di tutti gli abitanti degli altri paesi africani limitrofi, ha meno di 17 anni e mezzo e l’altra metà più di 17 anni e mezzo. Metà degli italiani, invece, ha meno di 45 anni e l’altra metà più di 45 anni. Possiamo davvero dire che sono due mondi, completamente diversi tra loro. L’Africa cresce, è vero, ma ha un aumento demografico al quale si associano altri fattori che producono iniquità. Uno tra questi è la corsa verso le città. La metropolizzazione dell’Africa è impressionante, perché non è nemmeno guidata, come avviene in Cina che, nei prossimi 10 anni, metropolizzerà 200 milioni di persone -circa 20 milioni all’anno- ma lo farà con un piano guidato dalla politica. In Africa, invece, possiamo parlare di migrazione biblica: è la gente che si muove spinta dalla fame e da problemi che diverranno enormemente più gravi in futuro. Recentemente, il presidente del Niger si domandava dove potessero andare questi giovani africani in cerca di un futuro possibile e aggiungeva “forse in Europa”. Lo preciso, perché queste sono riflessioni che assolutamente dobbiamo fare: o c’è un impegno molto più forte per l’Africa oppure, nonostante i buoni dati che vi ho appena riferito, l’immigrazione dal continente africano verso l’Europa non potrà che crescere nel prossimo futuro.

Diseguaglianze tra paesi, e all’interno dei paesi

Nell’ambito del tema delle diverse crescite che oggi affrontiamo non c’è soltanto l’aspetto delle disuguaglianze tra i diversi paesi, ma anche quello delle disuguaglianze all’interno dei singoli paesi ed è, questo, un aspetto molto importante. Le disuguaglianze stanno aumentando ovunque: intendo dire che crescono sia nei paesi capitalisti, sia nei paesi comunisti, in tutto il mondo. Dal 1980 ad oggi abbiamo un arco storico molto preciso: fino al 1980 possiamo dire che le disuguaglianze sono leggermente diminuite, grazie ai sindacati e ai miglioramenti della classe lavoratrice con tutta una serie di fattori collegati che ora qui non elenco. Dal 1980 in poi, invece, le diseguaglianze sono fortemente aumentate, ovunque: negli Stati Uniti, in tutti i paesi europei, in Russia, in India e in Cina. L’unica eccezione sono stati i paesi nordici che hanno mantenuto la loro tradizonale politica di welfare e mi riferisco ai paesi scandinavi. Non va dimenticato però il Brasile: vedremo se quest’ultimo riuscirà a proseguire nella sua crescita grazie alla grande politica di Lula, quella della “borsa famiglia” che è stata una politica molto semplice ma che ha iniettato risorse nelle categorie più basse, a condizione che mandassero i figli a scuola, che li facessero vaccinare. Un’azione politica ed economica molto esplicita e diretta che, fino ad oggi, ha portato ad una diminuzione dell’ingiustizia.

Ma nel resto del mondo perché sopravvivono le disuguaglianze? Naturalmente per chi ne vuole sapere di più c’è ora un nuovo manuale, il famoso libro di Piketty, ‘Il capitale nel XXI secolo’. E’ un bel libro, che esamina davvero a fondo questi problemi e, nonostante adesso sia anche oggetto di critica, il quadro che offre è importante. L’autore sostiene che tutti i periodi di espansione del mondo capitalistico abbiano portato con sé anche una maggiore ingiustizia, mentre gli aggiustamenti si sono verificati solo nei periodi bellici o di crisi fortissime durante le quali la ripresa di una certa necessità di politica collettiva ha riequilibrato i redditi. La spiegazione, anche se in questa sede non facciamo lezioni accademiche, ma cerchiamo di comprendere fenomeni complessi, è in sintetizzabile in questo concetto: il libero mercato ha una sua naturale tendenza verso l’ineguaglianza, perché il rendimento della proprietà e degli investimenti è costantemente più elevato del tasso di crescita. Direi che è abbastanza intuitivo e semplice: se la crescita è al 2% e il rendimento delle proprietà è al 5%, la disuguaglianza aumenta e questo, proiettato negli anni, diventa un processo che determina enorme disuguaglianza.

Ma la domanda è: perché è esploso negli anni 80? Perché sono venuti meno gli strumenti riequilibratori dello Stato. A partire dalla dottrina della Signora Thatcher e dai principi economici diffusi dal Presidente Reagan è cambiato tutto il quadro di riferimento del mondo. La parola d’ordine era, e ve lo ricorderete, “quello che conta è l’individuo, non la società”: queste affermazioni sono rimaste impresse e si sono diffuse. Il nuovo atteggiamento riguardava le imposte, le tasse sui redditi che negli Stati Uniti erano molto elevate (si andava oltre i due terzi). Adesso siamo a meno della metà.

Questa dottrina, condivisa da tutti, è stata anche supportata da quelli che ci hanno fortemente rimesso a causa della stessa, perché è diventata Vangelo. Direi che è un fenomeno economico interessante, perché mentre una generazione fa, durante le campagne elettorali c’era sempre il confronto fra “più servizi o più imposte”, è dagli anni 80 che il problema non si pone più: chi parla di imposte perde le elezioni e vi posso assicurare che è anche una mia esperienza diretta. E’ un fatto che si prolunga ancora nella vita elettorale. Alla sfiducia crescente nei confronti dello Stato è stata legata la capacità redistribuiva del fisco: non solo è calata l’aliquota delle imposte sui redditi elevati, ma l’imposta sull’eredità è stata o abolita o portata a livello bassissimi. Dove aveva una tradizione forte, come in Francia, si sono diffusi testi in cui si attestava invece la funzione riequilibratrice, pur coi limiti delle diffuse evasioni.

Piketty suggerisce che se vogliamo correggere questo trend, bisogna fare delle proposte assolutamente controcorrente, bisogna rimettere le imposte sulle eredità o aumentarle, bisogna ritornare ai tassi di imposizioni sui redditi oltre i 500 mila dollari pari all’80%. Questo atteggiamento ha portato a Piketty le accuse di comunismo, mentre Piketty non è certo marxista. Questa tuttavia non è la sola causa di disuguaglianza. Intendo l’evasione, fenomeno patologico, certamente, in paesi come l’Italia, ma comunque sempre presente in tutto il mondo. La ragione è molto semplice: il lavoro è in un certo modo identificabile come fisso, mentre il capitale scappa e attraverso i mercati aperti.

Le nuove tecnologie e la disuguaglianza

Le nuove tecnologie sono un’altra causa di disuguaglianze e questa è una considerazione che mi preoccupa molto. Lo dico soprattutto ai giovani. Ad oggi la rivoluzione tecnologica è diversa dalle altre alle quali abbiamo assistito o studiato sui libri di scuola. Pensiamo a quando, in passato, l’automobile sostituì la carrozza: i produttori di carrozze non erano di certo entusiasti! Però, immediatamente, sorsero le fabbriche di automobili, le raffinerie, i distributori di benzina, le strade. Tutto un sistema economico si mosse, fino a travolgere la situazione precedente e più che compensando i settori messi in crisi. Così è stato se prendiamo in considerazione le innovazioni quali la ferrovia, la diffusione dell’energia elettrica o del telefono…Invece, finora, questa rivoluzione informatica è drammaticamente più efficace nel distruggere posti di lavoro di quanto non sia nel riassorbirli. Per ora in Italia la più grande rivoluzione è stata la sparizione delle segretarie, migliaia di persone, ossia posti di lavoro, scomparsi. Ormai nelle imprese la contabilità è prodotta grazie all’ausilio dei nuovi sistemi elettronici e informatici.

I più giovani non possono avere la percezione esatta di questo grande mutamento, ma chi ha la mia età ha visto e ricorderà le stanze piene di migliaia di disegnatori tecnici. Adesso ci sono quattro ragazzi con i computer che fanno tutto. Ovviamente ci sono anche i creativi, ma in termini quantitativi, per ora, i posti di lavoro creati dall’avvento delle nuove tecnologie sono molti meno rispetto a quelli persi. Vorrei chiarire, e mi preme farlo, che non sono un luddista, ma in questo settore non siamo all’avanguardia e oltre al danno subiamo anche le beffe: penso a quanto paghiamo quando leggiamo i giornali sull’i-pad, a quello che noi paghiamo alle grandi imprese americane che controllano questi nuovi settori.

Per tornare alle conseguenze sui posti di lavoro persi a seguito della rivoluzione tecnologica: quando domando ai responsabili dei molti settori una previsione circa il futuro, quando chiedo se nel 2024 gli impiegati delle banche saranno più o meno della metà di oggi, tutti mi rispondono che saranno meno della metà di oggi. Si tratta di cifre impressionanti che cambieranno il quadro di riferimento del mondo. Siamo quindi davanti ad un processo che continua, che porterà un altissimo livello di ricchezza per una parte sola della società. Per rimanere coerenti con il tema di oggi è bene quindi chiedersi qual è il contributo reale delle nuove tecnologie per una più equa distribuzione del reddito.

Accettazione della disuguaglianza da parte dell’opinione pubblica

Mi colpisce molto e lo giudico un fatto di preoccupante interesse l’accettazione della disuguaglianza da parte dell’opinione pubblica. Trentacinque anni fa, quando io ero un giovane promettente e il mio mestiere era quello dell’economista industriale, scrissi un articolo sul Corriere della Sera. Si trattava di un’analisi condotta all’interno di alcune imprese con il quale evidenziavo che la differenza di salario tra il direttore e l’operaio di linea era da 1 a 30. Ricevetti tante lettere che, dandomi ragione, ammettevano che quella era un’ingiustizia. Oggi la differenza è da 1 a 300 e anche di più, ma è una differenza assolutamente accettata. E’ necessario porre attenzione a questa accettazione, perché le convinzioni filosofiche e politiche cambiano l’anima della società, fino al punto che oggi non si coglie la portata di questa differenza enorme. Ora alcuni posti di lavoro sono altamente remunerati e moltissimi invece bassamente remunerati: di conseguenza, anche tutti i discorsi sulla precarietà e la classe media che si assottiglia sempre di più assumono sfumature diverse. Questo si traduce in slogan politici che noi accettiamo tranquillamente, perché li abbiamo ormai interiorizzati.

Pensiamo a quello che la Cancelliera Merkel dice a proposito del sistema di welfare europeo: che l’Europa non può andare avanti perchè non possiamo vivere in un Continente che oggi conta solo il 7% della popolazione mondiale, produce circa il 25% del PIL globale e deve finanziare il 50% della spesa sociale globale. Ma il problema è che le risorse del welfare seguono un’ottica di ridistribuzione diversa con conseguenze diverse che nessuno oggi considera. Anche in Cina, dove da sei anni insegno alla Business School di Shangai, i discorsi che si fanno sulla sanità sono quasi incredibili. Mi spiego meglio: per i cinesi la stessa sanità deve essere assorbita, come gli altri settori, dal mercato. Su questo aspetto ricevo sempre delle critiche, del tipo: “voi spendete troppo in welfare”. La mia obiezione è di buon senso: io appartengo ad un paese -l’Italia- che certamente non rappresenta la guida del mondo, in cui in sanità si spende dal 7% all’ 8% del PIL ma, il paese a cui vi riferite con tanto odio e amore qui in Cina, ossia gli Stati Uniti, spende tra il 17% e il 18%. Però c’è una complicazione: noi, in Italia, viviamo 4 anni in più degli americani! Allora qualcosa di buono questo sistema di welfare lo dovrà avere, sia nell’ambito delle spese che in quello dei risultati.

Sappiamo che la Cina sta compiendo progressi impressionanti e anch’io, ogni volta, tendo a stupirmi sempre più. Però anche in Cina esistono disparità enormi: la disparità tra città e campagna, il problema della sanità, il problema delle diversità regionali e persistono grandi disuguaglianze nonostante i risultati raggiunti. Nell’ultimo piano quinquennale cinese, 2011-2016, troviamo le linee e i progetti di cambiamento che pongono l’obiettivo dell’aumento dei consumi interni e, ovviamente, quello dei salari (dei passaggi verso i consumi). Ma tuttora la diversità nel reddito pro capite delle regioni è di 1 a 5 – 1 a 6, molto più forte di quello esistente in Italia tra Nord e Sud che pure costituisce per il nostro Paese un gap di grande e drammatico rilievo. Se accettiamo questi principi, se interiorizziamo che in Europa spendiamo troppo in welfare e non analizziamo il dato della spesa con i risultati raggiunti grazie a quel tipo di impegno delle risorse, se facciamo diventare Vangelo certe affermazioni, continueremo ad accettare le disuguaglianze senza stupirci. Alla disuguaglianza contribuisce anche l’esclusione. Esclusione dal mondo del lavoro prima di tutto. Oggi non solo il tasso di disoccupazione è altissimo, e soprattutto preoccupa quello giovanile, ma aumenta il numero di coloro che, considerata la situazione, non cercano neanche più un lavoro. Si configura, così, una sorta di esclusione dalla speranza. L’ascensore sociale funziona sempre meno, mentre dilaga il potere del “dinero”, come dice il Papa. Il sistema democratico è sempre più incapace di rappresentare gli esclusi a causa della diffusione e del radicamento proprio di quelle dottrine economiche che ho descritto e questo costituisce un problema politico decisamente importante.

Certamente al problema della disparità non sono estranei aspetti patologici quali quelli della corruzione e della evasione che ora non posso affrontare in modo approfondito, per ragioni di tempo. Mi basta ricordare che essi hanno un grandissimo peso anche in paesi quali la Cina che ha avviato una lotta contro la corruzione, sotto la guida della nuova presidenza, molto incisiva. In Cina il fenomeno era talmente diffuso che, negli ultimi mesi, a seguito delle iniziative contro la corruzione, il mercato dei prodotti di lusso è calato del 30%, pur essendo l’economia del paese fortemente cresciuta. Questo sta a significare che esisteva uno strano giro del prodotto di lusso che era al di fuori di ogni immaginazione, confermato dai dati macro economici. Aggiungo che l’attuale lotta alla corruzione sta raggiungendo dati estremamente elevati che confermano una durezza e un rigore rispetto alle scelte compiute a contrasto dell’evasione e della corruzione che io stesso non avrei immaginato.

Il ruolo dell’Europa

L’Unione Europea poteva arginare questa deriva verso le disuguaglianze nella distribuzione delle ricchezze? La scelta dell’allargamento dei paesi membri è elemento che, in termini di redistribuzione, è interessante perchè ci consente di dire che l’Unione Europea ha svolto un’azione riequilibratrice: a differenza di quello che capita in tutte le grandi aree economiche, dove quelle più avanzate crescono più in fretta delle aree periferiche, in Europa è successo l’inverso. Dopo l’allargamento, infatti, sono cresciute molto di più la Polonia, la Repubblica Ceca, la Slovacchia, la Bulgaria, la Romania. Tutti questi paesi sono cresciuti più di altri paesi economicamente più forti. Tuttavia la capacità redistribuiva dei governi a livello nazionale è diversa a seconda della pervasività dello ruolo dello Stato: la ritroviamo altissima nei paesi scandinavi, mentre in Francia e in Italia varia dal 30% al 60% della ricchezza. Il bilancio dell’Unione Europea è l’1% del prodotto nazionale lordo europeo anzi , onestamente, non ha mai toccato l’1%, quindi la capacità della redistribuzione dell’Europa è assolutamente minore. L’Europa non è uno stato federale, non c’è un centro da cui passa la ricchezza e in quel l’1 % c’è la politica agricola che prende il 40% di questo 1%, la politica di sviluppo regionale che prende un altro 10%-20%, poi ci sono la burocrazia, la ricerca e lo sviluppo. Tutte le politiche fatte, molte anche in direzione positiva, però non sono, ad oggi, risultate sufficienti alla realizzazione di una migliore ridistribuzione.

Altra domanda legittima è quella relativa al ruolo dell’ONU e dei numerosi G8 rispetto ai paesi poco sviluppati. Qualcosa certamente l’hanno prodotto, ma in misura minima e soprattutto al di sotto delle aspettative create. Ho partecipato a dieci G8, 5 come Presidente del Consiglio italiano, 5 come Presidente della Commissione Europea e, ammetto, non abbiamo mai mantenuto le promesse enunciate: si era partiti come l’1% del PIL in aiuti ai paesi poveri, poi si è andati allo 0,70%, poi ancora allo 0,40%. Ogni anno si innalza l’emotività delle parole e si abbassavano i versamenti fatti. Certamente anche questo minimo ha potuto contribuire ad un miglioramento dei paesi più poveri, ma restano interventi a livelli marginali. E’ tuttavia evidente che se non ci sarà un bilancio europeo più forte e una gestione centrale non si potrà pretendere dall’Europa quello che la gente, durante le campagne elettorali, chiede. La politica dell’Europa deve cambiare perchè sta esercitando una politica suicida. E’ vero che molti passi in avanti sono stati compiuti da punto di vista politico, per preparare il cammino ad una maggiore uguaglianza, con l’allargamento delle aree più povere e con un potenziamento del ruolo della Commissione, ma il vero problema dell’Europa è che “è cotta a metà”.

L’Europa resta veramente il più bel disegno politico della storia dell’umanità, ma bisogna finirla con gli egoismi nazionali e invece creare una struttura sopra nazionale che è anche l’oggettiva forza dell’Europa stessa. L’Europa esprime una forza economica importante e contribuisce con il 20% del prodotto lordo mondiale. Ciò significa che ancora siamo il numero uno, insieme agli Stati Uniti. Siamo il numero uno nella produzione, il numero uno nel reddito, il numero uno nella produzione industriale, il numero uno nell’esportazione. Tuttavia finché non esisterà una politica unitaria non possiamo sperare di mantenere, per il futuro, questa posizione. Guardiamo come ha reagito l’Europa difronte alla crisi e come invece, così come ho già accennato, hanno reagito gli Stati Uniti e la Cina che sono fuori dalla crisi grazie alle loro politiche economiche. Stati Uniti e Cina hanno immediatamente riversato nelle loro economie risorse nuove per superare la grave contingenza economica. Gli Stati Uniti, come ho già detto, hanno investito 800 miliardi di dollari, e la Cina ha versato 4 triliardi di Renminbi, 595 miliardi di dollari, ossia una somma enorme così da produrre, come immediata conseguenza, un salto in avanti della economia. In ambito europeo, invece, l’uscita dalla crisi è molto più difficile perché nessuna decisione è stata presa in materia di disparità degli Stati e, per la presenza di dottrine e cambiamenti di potere enormi all’interno dell’Europa stessa. Quasi nessuno li ha descritti con l’enfasi e l’analisi che ci vorrebbe.

Dieci anni fa, quando era ancora Presidente della Commissione Europea, era fortissima nelle istituzioni la presenza della Gran Bretagna che, pur non essendo entrata nell’Euro, controllava, in un certo senso, la burocrazia europea. Io ero entrato nella Commissione pensando di andare in mano a burocrati franco tedeschi e invece mi sono ritrovato gli inglesi, i più raffinati e i più capaci, anche per il loro altissimo senso di unità nazionale. Dei miei collaboratori, ad esempio, se erano francesi, italiani o tedeschi, dopo soli due giorni sapevo se erano socialisti o democristiani. Dei miei collaboratori inglesi non so nemmeno oggi se fossero laburisti o conservatori, sapevo che erano british: in questo caso l’interesse nazionale veniva custodito con il loro ambasciatore.

Ora il premier inglese ha annunciato un referendum per decidere se rimanere in Europa o meno. Di conseguenza tutti i paesi che si appoggiavano alla Gran Bretagna, oppure si mantenevano in un equilibrio fra Francia, Gran Bretagna e Germania, spinti anche dalla crisi francese, si sono appoggiati alla Germania per il semplice fatto che non sono in grado di sapere se la Gran Bretagna, tra tre anni, sarà ancora un paese dell’Unione. La Francia si è indebolita fortissimamente inoltre, dopo l’ultimo rimpasto di governo, si è allineata, in materia economica, alla Germania. Anche il disegno che un anno fa pensavo possibile, ossia quello di avere una politica economica rivolta alla crescita, al rilancio delle categorie più basse unendo Italia, Francia, Spagna – che avevano lo stesso interesse – non ha più nessuna possibilità di realizzarsi. Anche la Spagna si sta muovendo verso la Germania. Quello che sta accadendo, in conclusione, è che è rimasto un solo punto di riferimento nell’Europa, la Germania. La sua cancelliera ora ha la matita rossa e da’ i voti. Da economista posso dire che la Spagna sta assai peggio dell’Italia: ha sì fatto qualche riforma in più, ma non decisiva. Eppure lo spread favorisce la Spagna, un paese che io amo follemente perché molto simile al nostro, ma la differenza tra noi e loro nasce dall’atteggiamento dall’arbitro europeo. Intendiamoci, la Germania è arbitro in Europa per le sue virtù, non per i suoi vizi.

La Germania ha una redistribuzione del reddito migliore degli altri, ha un sistema industriale e politico che funzionano, ha il dialogo tra le forze sociali che funziona molto meglio che in altri paesi. Non sto facendo un discorso anti germanico. Ho sempre studiato l’industria tedesca come un parametro di confronto positivo. Sto semplicemente descrivendo una situazione che si è venuta a creare nella realtà dei fatti. E qui si apre un discorso politico molto interessante e molto importante che ha delle conseguenze sul futuro anche della ridistribuzione del reddito, perché la Germania ha un unico punto di riferimento: la lotta contro l’inflazione. E quindi rigore assoluto, mettere il pareggio di bilancio nella costituzione. L’Italia l’ha seguita di corsa, io sono stato uno dei pochi a dire che avevamo perso il buonsenso, perché il bilancio è una cosa che deve variare di anno in anno: ci sono degli anni in cui deve andare in attivo e degli anni in cui deve andare in passivo. Se l’economia va male abbiamo tutti imparato che bisogna iniettare potere d’acquisto, come hanno fatto gli americani con il quantitative easing. Così il presidente Obama ha salvato l’impresa automobilistica, con l’intervento pubblico e Obama non è mica un feroce comunista.

Leadership e Responsabilità

Ho cercato di farvi capire come i legami intellettuali e i legami economici e finanziari siano tanto stretti fra di loro. In Italia, invece, abbiamo assorbito all’unanimità il concetto del rigore all’interno della nostra politica, e la mia preoccupazione è forte circa la crescita, i giovani e il futuro. I grandi paesi nella storia dell’umanità hanno sempre messo insieme leadership e responsabilità. Ad esempio quando gli Stati Uniti hanno vinto la seconda guerra mondiale hanno proposto il piano Marshall. In Germania, invece, non è possibile parlare di leadership perché questo richiama concetti passati, perché porta l’attenzione sul riarmo, porta l’attenzione su tanti problemi politici delicati. Dai dibattiti interni del Bundestag si trae un’impressione di severità, di rigore, connessi alla non volontà di assunzione di responsabilità, che deriva dalla leadership, perché è la stessa leadership che viene negata da tutti. E’ una convinzione radicata, figlia dei drammi della storia. Il risultato però è che siamo imprigionati in una politica di paralisi, mentre tutto il mondo va avanti. Naturalmente ci sono alcune complicazioni che incidono anch’esse sull’economia di oggi, come le tensioni con la Russia, l’Ucraina. Tutto l’insieme contribuisce ad abbassare il tasso di sviluppo.

Ma il problema non è propriamente solo questo. Il vero problema è la diversa concezione sul futuro e sui doveri dello Stato. E’ un elemento questo che rende ancora più complicata la ripresa economica e quindi il problema di un aumento dell’occupazione, perché in questa fase ci vuole la ripresa dello sviluppo per aumentare l’occupazione. L’Italia, inoltre, ha un doppio problema che è la sua classe lavoratrice, la classe media, che in un paese con uno scarso livello di ricerca e di sviluppo e di innovazione – come è il nostro adesso – riguarda in particolare la classe giovanile che ha un elevatissimo livello d’istruzione, ma che è costretta ad emigrare. Noi siamo diventati tra i più grandi esportatori di mano d’opera qualificata: solo nell’ultimo anno siamo intorno a 60 mila persone che sono emigrate dal nostro paese. Un terzo di queste è laureato e gli altri due terzi altamente specializzati: sono chef, organizzatori di ristoranti, disegnatori di moda. L’Italia ha investito sulla loro istruzione (la più prudente delle stime ci dice che dal 2008 al 2014 è emigrato un gruppo di italiani la cui istruzione è costata allo Stato miliardi di euro), il nostro paese ha dedicato risorse perchè si formassero e se ne sono andati esportando altrove le loro competenze e le loro ambizioni. I paesi nei quali sono emigrati si avvantaggeranno anche per la loro presenza, mentre noi registriamo una perdita di valori professionali e umani. L’Italia è una piccola parte del mondo, tuttavia ho voluto inserire anche uno spaccato dei problemi del nostro paese per inquadrarli in un discorso mondiale, perchè anche la nostra realtà, come tutte, è suscettibile di cambiamenti rispetto a ciò che avviene nel mondo.

L’ultima domanda, a conclusione di questa panoramica piuttosto varia, è se c’è o se sia possibile costituire un’autorità capace di mettere a posto le cose in un mondo così complesso? Ci si chiede se l’ONU, ad esempio, possa esercitare questo ruolo. Ho fatto l’esperienza di lavorare per l’Onu in Africa, ma l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha si la capacità di intervenire nelle cose minori e, pur facendo cose molto importanti come gli interventi mirati al contrasto dei genocidi africani, non le è concesso, dalle grandi potenze, di agire nelle grandi decisioni politiche ed economiche. Il Fondo Monetario Internazionale applica, in buona sostanza, una dottrina di severità e di principi identici in tutto il mondo e anche la Banca mondiale segue una dottrina simile, con regole sostanzialmente condivise con il direttore del Fondo monetario internazionale. Questo stato delle cose che va avanti, da tempo, senza discussioni, è stato scosso da un fatto ancora poco studiato. I Brics, ossia Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica stanno costituendo, con la Banca Mondiale, una banca di sviluppo. E’ un’iniziativa molto complessa perché coinvolge paesi, come la Russia che, in questo momento, ha una situazione economica fragile e deve affrontare problemi molto gravi a causa dell’abbassamento del prezzo del petrolio e delle sanzioni. Tuttavia questa banca sta partendo e l’attività di questi paesi nei mercati internazionali sta diventando estremamente forte. E ancora una volta non possiamo non chiederci che cosa stia facendo l’Europa. Quando nacque l’Euro la Cina manifestò un enorme Interesse, che non era solo economico. Il Presidente cinese mi disse, in un incontro -e la cosa mi colpì molto- : “noi vogliamo l’Euro perché se accanto al dollaro c’è l’Euro allora c’è posto anche per la Cina”. L’Euro rappresentava la possibilità di un mondo più paritario. Non è corrispondente alla verità quanto si dice, infatti, della moneta unica e cioè che il suo avvento sia identificabile con l’Europa dei banchieri. Il cuore dello Stato moderno è costituito da due pilastri: l’esercito e la moneta. Nel 1954, quando si tentò di realizzare un esercito comune la Francia si oppose perchè non voleva rinunciare alla sua forza nucleare. Ma con la moneta abbiamo avuto successo e abbiamo realizzato uno dei due pilastri che sorreggono la nostra Europa. Ma se l’Europa non saprà tornare protagonista nel mondo..tra dieci anni il Renminbi potrebbe prendere il posto che oggi occupa la nostra moneta.

Ciò che mi preme ribadire, avviandomi alle conclusioni, è che dobbiamo riconquistare il significato politico della solidarietà, il senso dell’uguaglianza, il senso della partecipazione. Noi dobbiamo essere orgogliosi dello stato sociale perché, se ben gestito, è uno strumento di sviluppo, non di arretramento. Se facciamo profondamente nostre queste convinzioni allora possiamo tornare a parlare alla gente e convincerla. Diversamente il populismo andrà avanti: è molto facile infatti prendersela con gli immigrati e gridare ‘usciamo dall’Euro’ e sappiamo bene che nei momenti di difficoltà questi slogan hanno un’attrattiva irresistibile. Attenzione però che non si fa fronte al rischio del populismo negando le difficoltà che oggi abbiamo. E’ con la proposta di obiettivi concreti e di scelte politiche possibili che si superano le difficoltà. Per farlo c’è bisogno di una forte unità europea e del rilancio del ruolo dell’Europa a partire dall’assunzione di responsabilità della Germania che detiene la leadership europea.

E’ un cammino ancora molto lungo da percorrere, mi auguro solo che si cominci presto a camminare, perché da questo dipende la possibilità di vedere nel nostro continente e nel nostro paese la realizzazione di una maggiore e reale uguaglianza.


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