La relazione con le persone ospiti non finisce con l’uscita dalla Casa. Ne parliamo con Iole Romano e Luisa Brembilla.
Ci sono esperienze di accoglienza in Casa della Carità che non terminano con l’uscita da via Brambilla, che sia verso un’altra comunità, in uno degli appartamenti gestiti dalla Fondazione o con l’assegnazione di un alloggio popolare. Alcuni di questi percorsi continuano, perché, afferma l’operatrice Iole Romano «creare legami con le persone ospiti e mantenerli nel tempo fa parte del dna della Casa».
Se infatti molte persone, una volta terminata l’ospitalità, sono completamente autonome, altre invece hanno ancora bisogno di sostegno.
Il benessere della persona è dato dalle relazioni
Iole per molti anni ha coordinato la comunità So-Stare, una vera e propria “casa nella Casa” dedicata a persone con fragilità psichiche, dove gli ospiti contribuivano alle attività quotidiane, sotto la supervisione delle operatrici e con il sostegno di volontarie e volontari. Molte di loro, finito il loro percorso a So-Stare, sono andate a vivere in autonomia ma, dice Iole «è un’illusione pensare che raggiungere l’obiettivo della casa possa farci dire “ok, quello che dovevamo fare l’abbiamo fatto”, perché in questi anni abbiamo toccato con mano che il benessere completo della persona non è dato soltanto dall’avere un tetto sopra la testa, ma è dato dalle relazioni».
E così tra gli ex ospiti di So-Stare c’è chi, settimanalmente o mensilmente, torna alla Casa per incontrare Iole, raccontarle come vanno le cose, chiederle supporto: «Sono persone che fanno fatica a muoversi da sole nella grande città, una solitudine che per alcuni può essere devastante, facendoli spesso arretrare in quelle abilità che avevano recuperato vivendo alla Casa della Carità. E quindi chiedono aiuto, per esempio, per questioni lavorative o affettive o anche solo per prendere un appuntamento per una visita medica, fare dei pagamenti o fare la spesa. Sono cose che possono sembrare banali, ma che per persone che hanno delle fragilità possono apparire insormontabili, generando un riflesso negativo sul loro benessere psicofisico».
Alcune di queste persone fanno fatica anche a mantenere i legami di amicizia che erano nati con gli altri ex ospiti e quindi la Casa della Carità è per loro un punto di riferimento, un luogo dove sanno di poter sempre tornare, dove passare anche solo per un saluto o per un pranzo insieme. «Sapere che c’è un luogo dove c’è qualcuno che ti ascolta, dà sicurezza e stabilità», conclude Iole.
La Casa della Carità continua a essere un punto di riferimento
Dopo l’ospitalità alla Casa la relazione continua anche con quelle persone che vanno poi a vivere in uno degli appartamenti che la Fondazione gestisce sul territorio di Milano. Spiega Luisa Brembilla, che coordina queste accoglienze: «Sono ragazzi single, che arrivano dalla Casa o da Casa Francesco (la comunità per minori stranieri non accompagnati della Fondazione, ndr), che hanno un lavoro e una certa autonomia e la capacità di stare in piedi, senza bisogno di avere 4 paletti di sostegno, ma magari di uno solo».
Anche per loro la Casa della Carità continua a essere un punto di riferimento: «C’è chi passa solo per fare due chiacchiere e chi invece condivide di più, chiede consigli o aiuto nel gestire alcune cose, per esempio c’è chi mi lascia il bancomat per essere aiutato a gestire le spese», racconta Luisa.
Proprio sulla quotidianità è dato un supporto importante: «Vivendo soli per la prima volta, molti fanno fatica a gestire i consumi, a rispettare le scadenze dei pagamenti, a gestire il risparmio. E poi c’è l’aiuto e il consiglio sul rispetto delle regole di convivenza in un condominio. Sono cose che possono apparire piccole, ma che, se mal gestite, possono rovinare le relazioni nel contesto in cui vivono», dice Luisa.
[Nell’immagine in apertura, alcuni ex ospiti di So-Stare]