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Perché il “Malabrocca” si chiama Malbrocca

Fiorenzo De Molli racconta il senso del Malabrocca, lo spazio di accoglienza e orientamento per chi si rivolge ai servizi diurni della Fondazione.

Fiorenzo De Molli è il responsabile del settore “Andare verso” della Casa della Carità, che si occupa delle persone in difficoltà che non sono ospiti della struttura. In questa intervista racconta il senso e il lavoro del “Malabrocca”, lo spazio di accoglienza e orientamento per chi si rivolge ai servizi diurni della Fondazione.

Fiorenzo, chi entra al “Malabrocca”?

Persone, semplicemente. Non esiste una categoria precisa: ogni giorno passano uomini e donne, italiani e stranieri, giovani e anziani. Sono disorientati, arrivano tramite passaparola e cercano ascolto e aiuto. Il flusso è continuo: dal mattino fino alla chiusura, la porta è sempre attraversata da qualcuno che cerca un punto di riferimento. Il nostro compito è ascoltare e offrire un orientamento, per aiutarli a rimettere insieme i pezzi.

Quali sono i problemi più frequenti?

Alcuni bisogni sono immediati come docce e guardaroba. Ma la maggior parte porta con sé situazioni complesse. Il problema principale è l’abitare, seguito da quello del lavoro. Poi c’è tutto il nodo dei documenti: richiesta di casa popolare, permesso di soggiorno, tessera sanitaria, fino alla residenza, sempre più difficile da ottenere. Pochi minuti fa, ad esempio, parlavo con una donna peruviana con un figlio autistico: il proprietario non le permette di registrarsi all’indirizzo dell’abitazione, pur percependo un affitto elevato. Senza questo requisito, il bambino non può essere riconosciuto come invalido né ricevere le cure necessarie. È emblematico: senza accesso alla residenza, molti diritti fondamentali diventano irraggiungibili.

Perché dedicare questo spazio proprio al ciclista Luigi Malabrocca?

Malabrocca è stato un personaggio affascinante: negli anni ’40 del secolo scorso arrivava ultimo di proposito al Giro d’Italia perché in questo modo riceveva comunque un premio. La sua era una strategia per vincere in un altro modo. Ecco, la nostra speranza è proprio questa: che anche gli ultimi possano vincere. Non perché arrivano primi, ma perché conquistano i propri diritti, perché riescono a dire: «Sono cittadino anch’io». Non tutti sono Bartali, Coppi o Pogacar, ma anche chi resta indietro ha un valore e un posto nel mondo.

Cosa ci dicono queste persone affinché il lavoro che si fa con loro non sia solo assistenzialismo?

Innanzitutto, ci ricordano che esistono. Milano deve saperli vedere, anche se sono spesso invisibili perché senza casa, lavoro, documenti. Una città che ambisce a essere inclusiva deve guardare questi volti e accoglierli come cittadini. Perché solo così smettono di essere considerati un peso e diventano una risorsa. Il punto è proprio questo: riconoscere i diritti. È da lì che passa la possibilità di costruire una città più giusta per tutti.


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