“La sofferenza sociale negli spazi urbani”. Leggi il testo della lectio magistralis tenuta dal professor Arhur Kleinman al convegno del Centro Studi SOUQ il 13 dicembre 2011, nell’aula magna dell’Università degli Studi di Milano.
Buongiorno, è meraviglioso essere qui e ricevere una così bella accoglienza. Desidero esprimere la mia gratitudine al dottor Saraceno, un caro amico, che è stato un magnifico responsabile dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Ringrazio inoltre l’Università di Milano per avermi ospitato, così come i professori e gli studenti che sono venuti ad ascoltare questa mia presentazione.
Scopo della relazione di oggi è mettere in relazione la teoria sociale ai problemi pratici, in modo da poter riflettere a fondo su come affrontarli e sulle modalità di intervento. E ritengo che, guardando indietro alle sue origini, si possa vedere come fosse questo l’intento dei grandi fondatori delle scienze sociali: la loro speranza era che gli studi umanistici e quelli scientifici potessero elaborare nuove teorie in grado di fornire una soluzione a quelli che allora sembravano problemi sociali insormontabili.
La diseguaglianza sociale è uno dei più grandi temi del nostro tempo. La possiamo vedere illustrata in questa fotografia di una protesta nella vicina Grecia, o ancora in quest ache mostra una manifestazione delle dimissioni del vostro precedente premier. O anche qui, in questa foto relativa al movimento Occupy Boston, per lo più composto da studenti che protestano per l’iniquità fiscale negli Stati Uniti. Sappiamo che la fase attuale del capitalismo finanziario, al quale facciamo riferimento con il termine neoliberismo, ha amplificato la diseguaglianza sociale. Si è rotto il patto sociale tra Stato e classe media e classe operaia, e ciò a cui stiamo assistendo nel mio Paese come nel vostro, e più in generale in Europa e in altre parti del mondo, è un progressivo assottigliamento della classe media, con una forte pressione esercitata sui lavoratori, e una concentrazione della ricchezza nelle fasce più alte dei percettori di reddito. Al contrario, in Cina e in India osserviamo che la classe media si ingrandisce invece che rimpicciolire, eppure anche lì, in quella loro versione del successo in epoca neoliberista, notiamo comunque un aumento della diseguaglianza sociale. In India le principali cause di malattia sono in ugual misura l’obesità e la malnutrizione. Entrambi i Paesi sono caratterizzati da una radicale iniquità nella distribuzione del reddito: una ricchezza che si gonfia a dismisura da una parte, insieme a una povertà estrema dall’altra. La diseguaglianza sociale ha come conseguenze il peggioramento dello stato di salute generale della popolazione a livello nazionale, l’incremento di fenomeni quali l’alienazione e la marginalità, l’aumento dei movimenti migratori dalle regioni povere del mondo verso quelle più ricche e l’ulteriore erosione del patto sociale tra poveri e ricchi.
A tutto ciò si associa una crisi drammatica delle realtà urbane. Tale crisi urbana è riscontrabile in città anche diverse tra loro come Pechino, Milano, New York e Boston. Praticamente tutte le grandi città mostrano le conseguenze di questa crisi relativa alla diseguaglianza: registrano infatti un aumento nel numero dei senzatetto e dei disoccupati, un incremento della criminalità e della violenza, della marginalizzazione di poveri, malati mentali e disabili, un aumento dei fenomeni di discriminazione verso gli immigrati irregolari e senza documenti, e un’accresciuta percezione di pericolo sociale e insicurezza. Quello dei senzatetto è un esempio particolarmente significativo di questa crisi. Negli Stati Uniti, stando ai dati della National Coalition for the Homeless, dal venti al venticinque per cento delle persone senza fissa dimora soffre di disturbi mentali gravi, e molti hanno anche seri problemi legati all’abuso di sostanze. Nel mio Paese, il ruolo del sistema di salute mentale è svolto di fatto dal sistema giudiziario criminale. Stigma e morte sociale mantengono i senzatetto, i malati mentali e i malati di AIDS in uno stato di marginalità.
Nella storia dell’umanità si sono già registrati altri periodi di grave diseguaglianza sociale e disordine in diversi momenti dell’epoca moderna, in particolar modo la rivoluzione industriale, il capitalismo mercantile, l’imponente movimento migratorio dall’Europa verso gli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento, la grande depressione degli anni trenta e la ricostruzione europea nel dopoguerra. Tutte queste fasi, caratterizzate da diseguaglianza e marginalità, erano legate a diverse espressioni del capitalismo e del cambiamento sociale. Condussero alle trasformazioni provocate dalla prima guerra mondiale e al collasso dell’ordine sociale ed economico che fecero strada all’ascesa del fascismo e del comunismo, alla grande depressione, alla ricostruzione europea del secondo dopoguerra e all’instaurarsi della guerra fredda, poi alla fine dell’impero, e infine, più di recente, alla crisi del capitalismo finanziario. Tuttavia, non tutti i problemi sociali sono dovuti ai mutamenti economici e politici. La violenza legata al sistema delle caste, le iniquità tra classi, il razzismo, l’intolleranza e la discriminazione per motivi religiosi, così come la violenza verso donne e bambini hanno longue durée. Molti di questi fenomeni sono il risultato di un’aumentata vulnerabilità nel mondo sociale per via della malattia mentale, mancanza di una dimora fissa, stigma o deterioramento delle prospettive personali. Tutti fenomeni, questi, che paiono essere connaturati alle società moderne. Proviamo a immaginare l’aggressività del ghetto. Ho in mente una città americana, ma potrebbe essere in Brasile o in Asia, Africa o altrove. Le baraccopoli, i quartieri poveri e le periferie degradate sono spesso pericolosi agglomerati di vite spezzate. Osserviamo una concentrazione di violenza sia sulle strade che all’interno delle mura domestiche, di povertà, di abuso di sostanze, depressione, disturbi post-traumatici da stress e suicidio. Gli interventi verticali su uno qualsiasi di questi problemi sono destinati a fallire se non affrontano l’intero complesso di problematiche correlate. Tali concentrazioni dimostrano – e questo è un punto cruciale della mia relazione oggi – che i problemi sociali e quelli sanitari non possono essere trattati separatamente, essi al contrario richiedono una cooperazione tra le soluzioni dei due ambiti.
E allora come può la teoria sociale aiutarci a comprendere lo stato attuale del mondo? Può l’antropologia venirci in soccorso permettendoci di applicare la teoria sociale alla sofferenza nel mondo e guidando, o modulando, i nostri effettivi interventi? Nel secolo scorso, i teorici delle scienze sociali hanno tentato di venire a patti sia con i problemi quali diseguaglianza e stigma sia con il grado in cui la teorizzazione su tali problemi può aiutarci a risolverli. Non tutte le teorie sociali sono pertinenti e non tutte sono adatte ai tempi in cui viviamo, ma alcune potrebbero rivelarsi particolarmente rilevanti per la nostra epoca. Le esaminerò ora in relazione ai problemi delineati in precedenza, perché tali problemi ci aiuteranno a pensare.
Le teorie di cui mi occuperò sono le seguenti. Quelle del sociologo americano Robert Merton, il quale elaborò l’idea delle “conseguenze involontarie dell’azione intenzionale” e quelle di Max Weber relative alla razionalizzazione e alla “gabbia d’acciaio” della razionalità; prenderemo in esame un concetto che ho elaborato con i miei colleghi Veena Das e Margaret Lock chiamato “sofferenza sociale”; citerò brevemente il biopotere di Foucault, anch’esso piuttosto pertinente; poi tratteremo le mie idee sul mondo morale locale, e diremo qualcosa su quanto Erving Goffman e i teorici successivi hanno elaborato a proposito dello stigma. Penso non sia necessario davanti a questa platea che io mi dilunghi sulla correlazione avanzata da Emile Durkheim tra modernità e anomia, o sulla visione che Marx e altri avevano del proletariato e del conflitto sociale, o ancora sulla teoria di Ulrich Beck relativa alla nascita dell’individualismo e all’approfondimento della nozione di persona.
Robert Merton è stato un importante sociologo alla Columbia University, negli Stati Uniti. Egli sosteneva che tutti gli interventi, tutte le politiche, tutti i programmi e le azioni burocratiche ovunque nel mondo abbiano conseguenze involontarie, e che tali conseguenze involontarie siano il risultato di un set di fattori categorizzabili in grado di deviare anche il migliore dei piani. La prima e principale ragione di ciò risiede nel fatto che chi agisce parte sempre da una base di conoscenza limitata. È davvero importante cominciare dalla consapevolezza di quanto sia limitata la nostra conoscenza di base in un’epoca come la nostra dominata da una tremenda hybris. Abbiamo la presunzione che la nostra conoscenza sia immensa e onnicomprensiva. Alla Harvard Medical School, diciamo ai nostri neolaureati che nei vent’anni a venire impareranno che la metà di ciò che è stato loro insegnato è sbagliato, solo che non sappiamo ancora quale metà! La nostra conoscenza, quindi, ha dei limiti. In secondo luogo, un’altra possibilità di errore è data da ciò che Merton chiama la “rigidità dell’abitudine”: ci irrigidiamo nei nostri schemi e ciò diminuisce la nostra capacità di vedere in modo chiaro quale sia l’azione migliore da intraprendere. Merton introduce poi l’idea dell'”imperiosa impellenza dell’interesse”, ovvero il fatto che le nostre motivazioni del momento reclamano in modo così potente la nostra attenzione da restringere il nostro campo visivo, facendoci perdere di vista alcune informazioni anche importanti. Infine, anche i nostri valori possono offuscare la nostra capacità di prevedere i possibili risultati. E questa è la ragione per cui, in caso si rendano necessarie delle valutazioni, io e i miei colleghi ci preoccupiamo che esse vengano condotte in modo indipendente, per evitare che il coinvolgimento di chi è direttamente implicato impedisca di vedere chiaramente cosa stia effettivamente avvenendo. Inoltre, le aspettative spesso influiscono sul risultato finale. La nostra aspettativa, ovvero ciò che noi pensiamo accadrà, ci porterà poi a credere che quel qualcosa è realmente accaduto.
La teoria successiva che vorrei esporre è la “gabbia d’acciaio” di Weber. Max Weber, il grande sociologo tedesco, ha scritto nel 1920 che le istituzioni avrebbero dominato la società perché potevano quantificare, generalizzare e razionalizzare. Weber pensava che ciò avrebbe avuto conseguenze sia positive che negative. Da una parte, avremmo avuto processi decisionali più logici, così che tutto sarebbe diventato più sistematico. Avremmo però anche perso qualcosa di quel collante sociale e di quel senso comune che fanno sì che le organizzazioni mantengano in qualche modo una loro umanità; avremmo perso una buona parte delle nostre tradizioni e molto sentimento, così come la capacità di usare regole empiriche. E alla fine saremmo rimasti imprigionati, secondo Weber, in una “gabbia d’acciaio” di razionalità tecnica, un mondo di algoritmi, formule e procedure che avrebbero finito per limitare la nostra capacità di essere spontanei, di escogitare soluzioni innovative o di andare controcorrente. Questa di Weber è una prospettiva cruciale per il mondo contemporaneo visto quanto di esso è strutturato e controllato dalle istituzioni.
Un altro quadro concettuale che voglio presentare è una teoria che ho elaborato qualche anno fa insieme ad alcuni colleghi. L’abbiamo chiamata “sofferenza sociale” ed è incentrata su cinque punti correlati tra loro. Il primo punto è che il dolore e la sofferenza hanno radici sociali. Forze di natura economica, politica, istituzionale, socio-relazionale e culturale a livello globale e locale co-producono la sofferenza. Un esempio è la violenza strutturale, che definirò a breve. Il secondo punto relativo alla sofferenza sociale è che talvolta proprio gli interventi che mettiamo in atto all’interno della società per affrontare tale sofferenza, di fatto finiscono per peggiorarla. Terzo, l’esperienza della sofferenza non è quasi mai solitaria: in genere è interpersonale e ha luogo all’interno della famiglia e della comunità. Pensiamo per un momento agli effetti devastanti del morbo di Alzheimer, che fa sì che un genitore anziano non riconosca più i suoi figli ormai adulti. In questo caso chi è che porta il fardello più pesante di sofferenza? Se ci si rivolge al genitore ottantenne o novantenne con gravi danni a livello cognitivo, potrebbe persino non essere in grado di dire che sta soffrendo, ma se invece si guardano i figli li si vedrà piangere. Ci si potrà cioè rendere conto che quella esperienza di sofferenza è veramente interpersonale. E questo è vero per molte condizioni. Quarto punto, utilizzando le parole “sofferenza sociale” intendo collegare gli interventi sociali e quelli sanitari e affermare che non si possono effettuare gli uni senza gli altri. I due devono procedere insieme. Infine, il quinto punto è relativo al fatto che questi problemi che sono da un lato della medaglia sociali e dall’altro sanitari, contemporaneamente sono anche morali, politici ed economici.
Ho affermato poco fa che la violenza strutturale è un tipo di sofferenza sociale. Cosa significa? Voglio citare il mio ex studente e attuale collega Paul Farmer, il quale attualmente è una sorta di icona della salute globale nel mondo – ed è molto interessante che oggi la figura centrale nel settore della salute globale mondiale sia un antropologo medico. Paul ha scritto: “La violenza strutturale è una sofferenza strutturata da forze e processi storicamente dati e in genere economicamente trainati, processi che attraverso la routine, la ritualità o, più comunemente, i drammi della vita, congiurano a costringere, a determinare la nostra azione”. Per molti, inclusa la maggior parte dei pazienti e degli informatori, afferma Paul, le scelte – piccole e grandi – vengono limitate da razzismo, sessismo, violenza politica ed estrema povertà. E allora l’idea qui è che la povertà sia la prima causa di mortalità infantile e materna, di malattie infettive tra gli adulti e di malattie mentali. Se siete curiosi di sapere qual è il fattore principale di rischio di malattia nel mondo, ecco: è la povertà data dalla violenza strutturale.
Molte delle teorie cui ho fatto riferimento, incluse la gabbia d’acciaio, la sofferenza sociale e la violenza strutturale, alludono a come la sofferenza possa venire aggravata dalla burocrazia. Ci sono numerosi esempi di questo. Michael Herzfeld, mio collega antropologo ad Harvard, ha introdotto il concetto di “indifferenza burocratica”, ovvero l’idea che la burocrazia porti a una sorta di freddezza e mancanza di simpatia da parte dei burocrati, non perché siano cattive persone, ma perché tutti noi, se rimaniamo invischiati nella razionalità burocratica, cominciamo a diventare indifferenti alle necessità degli altri esseri umani. Un altro caso che posso proporre è quello del disordine post-traumatico da stress di cui soffrono i veterani del mio Paese che hanno combattuto in Iraq o in Afghanistan: in un primo momento non era considerato una disabilità perché la burocrazia sosteneva che tutto era nella testa, e non nel corpo, quasi non si volesse accettare che la sofferenza è reale indipendentemente da quale sia la parte interessata. Si trattava di un approccio sprezzante, che tendeva a sminuire la gravità del problema, ma che per fortuna con il passare del tempo sta cambiando.
In questo contesto è rilevante anche il concetto di biopotere, al quale accenno solo in breve ben consapevole che non è necessario entrare nei dettagli di fronte a una platea come questa. Michel Foucault ha scritto: “Biopotere indica tutto ciò che porta la vita e i suoi meccanismi nell’ambito del calcolo. Biopotere fa riferimento ai controlli esercitati sulla vita, il che indica come essa venga calcolata a livello della popolazione e a livello del corpo”. E ricordiamo anche la grande idea di Foucault, poi sviluppata da Ian Hacking, per cui nello sviluppo della statistica lo Stato ha trovato un mezzo attraverso il quale controllare la popolazione. Grazie alla statistica, lo Stato ha potuto capire chi fosse la popolazione e come manipolarla. In modo simile vediamo gli stessi tipi di controllo portati nella dimensione del corpo.
Il miglior esempio degli effetti del potere intellettuale esercitato sul corpo non viene dall’Europa, bensì dalla Cina. Durante la rivoluzione culturale, tutte le donne dei villaggi cinesi erano tenute a esporre le date dei propri cicli mestruali alla porta di casa in modo che i funzionari che si occupavano del controllo della popolazione potessero verificare se una donna saltava un ciclo e quindi ci potesse essere la possibilità che fosse incinta. Si tratta di un esempio estremo dell’uso del biopotere per controllare la popolazione, e in questo la caso la sua fertilità. È importante riconoscere, tuttavia, che per Foucault il biopotere poteva avere anche un’influenza positiva sulla vita: poteva aiutare a capire i processi coinvolti nelle oscillazioni demografiche, come l’invecchiamento e la malattia, e forse fornire qualche spunto per perfezionare gli interventi di salute pubblica. Allo stesso tempo però era consapevole che il biopotere produceva nuove forme di governabilità che operavano direttamente attraverso il corpo, ovvero ciò che ora gli antropologi medici chiamano “incarnazione della politica”.
Una delle ultime teorie che desidero introdurre in questa sede è la mia concezione dei mondi locali. Tutti gli antropologi operano avendo presente l’idea dei mondi locali, la nozione che la nostra vita si svolge all’interno di network, di comunità, di quartieri, di villaggi, e che questi mondi sono sì aperti verso ciò che sta al di fuori di essi e vengono quindi condizionati dagli eventi esterni, ma che nonostante ciò, la loro influenza a livello locale rimane comunque molto forte nella dimensione quotidiana. L’importante corollario che ho tentato di apportare a tale nozione è che questi mondi sono fondamentalmente morali, perché in essi a venir messe in gioco per i gruppi che li abitano sono la dignità e l’esperienza di tutti i giorni. Con “morale” qui non intendo “etico”. Morale in questo contesto è ciò che riguarda le nostre pratiche locali e ciò che ci importa più di ogni altra cosa. Si tratta di una concezione antropologica ed etnografica della moralità. Parte di tale concezione è un’idea di soggettività per cui il mondo interiore di una persona include, oltre a sentimenti e idee, anche valori profondamente sentiti che sono uniti a sentimenti cui di solito ci riferiamo utilizzando il termine “sensibilità”.
L’ultima teoria che citerò è la formulazione dello stigma di Erving Goffman. Egli ha dichiarato che lo stigma implica l’atto del “discreditare” la persona o il fatto che la persona possieda una caratteristica nascosta che, se rivelata, la discrediterebbe al punto da impedirle di far parte del mondo sociale normale. Abbiamo imparato che lo stigma viene trasmesso non solo dalle popolazioni, generalmente, ma anche dalle burocrazie e dalle stesse famiglie, sia attraverso che trasversalmente i differenziali di potere. Nel peggiore dei casi, l’essere oggetto di stigma può portare alla morte sociale, in una società dove chi è stigmatizzato manca di efficacia e di status sociale e il suo stesso capitale morale si riduce quasi a nulla.
Ora, all’inizio ho affermato che fare una disamina teorica avesse come scopo suggerire quali tipi di intervento possano emergere, o trarre basi, dalla teoria. Voglio andare oltre e dichiarare che se la scienza sociale e le discipline umanistiche si limitassero semplicemente a identificare i problemi dell’umanità senza proporre risposte, senza un coinvolgimento nell’azione, credo che in futuro non ci saranno né scienze sociali né discipline umanistiche. È necessario partecipare alla realtà, dobbiamo non solo spiegare i problemi, ma guidare verso le possibili soluzioni. Questa è la direzione verso cui si sta muovendo il nostro mondo, verso cui si sta muovendo l’università, e io credo che le teorie sopra citate siano proprio quel tipo di idee che possa aiutarci ad avere un impatto sui problemi reali.
La questione è allora come possiamo utilizzare le teorie cui abbiamo accennato per affrontare la crisi urbana citata all’inizio del mio discorso, e come esse possono aiutarci a delineare un nuovo contratto politico. Questo non è il tema principale di questa mia relazione, ma di certo è un argomento molto importante. Oggi poi abbiamo qui presente il vicesindaco della Città di Milano. È necessario che noi pensiamo a come vorremmo che fosse tale nuovo contratto sociale, poiché quello esistente è ormai rotto. È chiaro che abbiamo bisogno di una nuova idea di politica economica. Ma anche di nuove politiche sociali e sanitarie, insieme, per quanto concerne il mio settore, a nuove politiche di salute mentale. Ciò su cui voglio focalizzare l’attenzione non sono tanto le politiche e i programmi, quanto, da un punto di vista antropologico, la questione di come nel nostro tempo i processi culturali possono acquisire un valore centrale per la politica e la pratica. Ne esaminerò uno in particolare. Non è l’unico, naturalmente, ma è quello più vicino ai miei interessi e al mio lavoro: la pratica della cura.
Per far ciò dovremo partire dall’esperienza morale, perché credo che questo sia il contributo davvero importante che l’antropologia porta oggi. È una prospettiva totalmente diversa dalla quale guardare alla moralità rispetto a quella derivata dalla filosofia e dalla storia; è l’etnografia dell’esperienza morale effettiva, realmente autentica. Il problema quando si ha a che fare con l’etica, che è un discorso ad alto livello sui valori, è la supremazia dei principi astratti. Ci sono bei principi come la giustiza sociale, per esempio; sono principi molto buoni ma terribilmente astratti, a tal punto da divenire quasi utopici. L’esperienza morale non è semplice. Tutti noi viviamo nel mondo. Sappiamo che l’esperienza morale riguarda i mondi e le persone in carne e ossa che interagiscono non in tempi utopici, ma in tempi davvero pericolosi e incerti. E ciò che serve è un approccio antropologico alle reali esperienze morali che promuova riforme e cura per i bisognosi. Gli antropologi, così come gli psicologi, i sociologi, gli psichiatri, i medici, gli esperti di salute pubblica, gli avvocati, gli ingegneri, hanno la responsabilità morale di andare oltre la pura comprensione. Tutti noi abbiamo la responsabilità di intervenire, di fare qualcosa nel mondo.
A livello culturale, però, sono pochi quelli tra noi che diventeranno grandi eroi, certamente non io né, forse, la maggior parte di noi. È un eroe chi cambia davvero mondo. Mentre la maggior parte di noi non lo farà. Per questo desidero utilizzare l’idea di antieroe, antieroico, sulle orme di Dostevskij, di Gramsci e del grande critico letterario americano Victor Brombert. E anche dell’ultimo Tony Judt quando scrisse del peso della responsabilità morale che grava sulle spalle degli intellettuali nella sfera pubblica. Le caratteristiche dell’antieroico sono autoriflessione critica (un’autoriflessione sulle esperienze morali che stiamo effettivamente vivendo), aspirazione all’etica (un’aspirazione a qualcosa che va oltre il locale), strategie di resistenza e azioni alternative. Le azioni antieroiche non cambiano il mondo, ma rendono chiaro agli altri ciò che deve cambiare, e resistono alle culture della collusione, dell’adattamento e del cinismo. Si tratta di azioni che perturbano e disturbano lo status quo, ciò che viene dato per scontato, in modi che ci fanno sentire a disagio con la nostra stessa passività e rassegnazione. Per esempio mettendo a nudo l’ipocrisia. E legittimano modi di vivere alternativi, offrendo nuove risposte personali alla domanda su cosa sia una vita accettabile.
Ora però vorrei spostarmi su un tema inerente alla mia sfera di specializzazione, ovvero l’idea di cura e presenza. Il concetto di presenza deriva dallo studio della religione e della medicina da un punto di vista antropologico, che osserva il modo in cui diventiamo pienamente presenti agli altri, il modo in cui la nostra umanità si rivela. E ho in mente di illustrare ciò che intendo portando un esempio pratico di cura tratto dalla mia personale esperienza. La mia esperienza di medico che si è preso cura dei pazienti per molti anni, ma ancor più, e più di recente, la mia esperienza, come membro della mia famiglia, di cura e assistenza a mia moglie, scomparsa nel marzo dello scorso anno dopo aver sofferto per un decennio del morbo di Alzheimer. Per la maggior parte di quegli anni, e per tutti gli ultimi mesi da lei trascorsi in un istituto, l’ho assistita quotidianamente. E quando dico assistita, intendo gli atti più pratici della cura: mettere a letto, dar da mangiare, aiutare a camminare, assisterla in tutti i modi possibili. Voglio suggerire che tali atti, le vere e proprie azioni pratiche, materiali sono ciò che definisce la cura. A rendere manifesta la nostra umanità non sono le teorie relative alla cura, bensì quelle azioni pratiche che concretizzano la nostra presenza in quanto esseri umani di fronte all’altro. Sto suggerendo che la cura produce un tipo di atteggiamento, un tipo di posizione nei confronti del mondo che va al di là della malattia, al di là della disabilità e di fatto è la base morale dalla quale affrontare i problemi sociali alla ricerca di quelle soluzioni innovative di cui parlavo prima.
Definisco cura l’attenzione ai bisogni dei bambini, degli anziani e degli invalidi, e affermo che la cura ha due componenti. A un livello pratico essa si esplica all’interno della famiglia, tra i partner, i figli e i familiari. Poi può anche esserci un livello professionale che coinvolge gli operatori del sociale e gli infermieri, gli assistenti degli istituti e degli ospedali, i terapeuti occupazionali e i fisioterapisti così come i medici. In tutto il mondo però, la parte più consistente della cura viene svolta, ed è sempre stata svolta, dalla famiglia.
Ho parlato poco fa degli atti pratici, fisici della cura: essi sono sicuramente centrali, ma è chiaro che accanto a questi, accanto cioè alla protezione e al supporto materiale, nelle strategie di cura rientrano anche tutte quelle pratiche che forniscono supporto emotivo e solidarietà morale. Parlo di questo nel mio libro What Really Matters. Il mio è il tentativo di mettere in relazione l’idea della morale e della vita morale con la cura. La vita è una questione di valori, è una questione di ciò che facciamo in pratica, semplicemente vivendo, negoziando con gli altri, impegnandoci in prima persona nelle cose alle quali teniamo, che sono quelle che fanno riferimento a quegli stessi valori vissuti. Questo è ciò che significa esperienza morale. E questo è l’ambito nel quale avviene la cura. Che però non si manifesta solo a livello del mondo. Abbiamo infatti una vita morale interiore, e questa è la ragione per cui l’antropologia ha bisogno della psichiatria e della psicologia: l’esperienza morale non può essere vista esclusivamente nel suo aspetto sociale, deve essere considerata anche dal punto di vista soggettivo e individuale. La nostra vita morale interiore implica non solo la nostra capacità di scelta, ma un senso quotidiano di ciò che il mio vecchio amico Pierre Bourdieu, sociologo francese, ha chiamato “le sense du pratique”, un senso pratico che, mentre facciamo le cose, ce le fa percepire come giuste o ingiuste. Anche questo fa parte della nostra vita morale.
Ciò che suggerisco è che lo studio, di fondamentale importanza, della sofferenza sociale viene fatto progredire da un’antropologia che affronta questioni che vanno al di là delle statistiche e dei casi individuali, e che riesce a creare narrazioni di resilienza, resistenza ed esperienza morale vissuta. Saranno queste storie a raccontarci le aspirazioni umane e la qualità che più definisce gli esseri umani: la speranza. Per poter comprendere come la sofferenza sociale si manifesti in contesti di malattia cronica, abbiamo bisogno di un’antropologia che non si limiti alla critica sociale e che non sia eticamente relativista. Un’antropologia può essere epistemologicamente relativista e un antropologo può essere ontologicamente relativista, ma nessuno di noi può permettersi il relativismo etico. A un certo punto dobbiamo prendere posizione, perché, diversamente, la nostra disciplina è disumana, non umana, e irrilevante per gli esseri umani.
L’antropologia che auspico deve proporre un nuovo contratto morale all’interno della società, uno che possa fare da base per un nuovo modo di pensare le politiche e gli interventi sociali. In passato l’antropologia è stata separata dall’elaborazione delle politiche e dei programmi. Ma in questo nostro tempo essa vi si avvicina sempre più ed è proprio così che io credo debba andare. Queste intuizioni devono giocare un ruolo attivo nell’ideazione delle politiche e nella consegna dei programmi. Se estendiamo la cura oltre la sfera della sanità al resto della vita sociale siamo in grado di vederla come un’emozione appropriata, un valore, una pratica attraverso la quale possiamo rivolgerci ad alcuni di questi problemi sociali. La cura diventa l’equivalente morale della riforma politica, economica e sociale, e la base morale per umanizzare politiche e programmi. Cura ai senzatetto, a chi soffre di disturbi mentali, a chi soffre di dipendenza, ai migranti traumatizzati, alle donne sfruttate nel traffico della prostituzione, ai bambini abbandonati, agli anziani infermi e agli altri gruppi marginalizzati. Quali sono le politiche e i programmi che emergono dalle pratiche di cura a questi gruppi emarginati?
Come può la cura, in quanto pratica contro la sofferenza sociale, reinventare e ricreare l’umano nella sfera sociale così come sta accadendo, per quanto riguarda il mio settore, l’antropologia medica, nella sfera sanitaria?
Per evocare il senso di quanto potente possa essere la cura che sto cercando di immaginare, vi illustrerò alcuni esempi dall’arte. Questa è una fotografia dell’opera di Käthe Kollowitz intitolata Lamento, che restituisce la sensazione della fisicità, della visceralità della sofferenza, la sofferenza di noi tutti. L’immagine successiva viene dalla pittura fiamminga del Trecento: la Regola dell’ospedale di Notre Dame a Tournai. Ancora, qui Rembrandt, forse il più grande artista a dipingere scene di cura, raffigura un ambiente domestico: osserva la pratica della cura nel contesto della sua stessa casa. Guardiamo poi il dipinto di sir Luke Fildes, Il medico, della fine dell’Ottocento, cioè di un’epoca in cui il medico di fatto non poteva fare nulla, dal punto di vista tecnico e farmacologico, per aiutare quel bimbo in fin di vita. In questa immagine vediamo una bambina malata e sullo sfondo la madre, distrutta, con accanto il padre che la circonda con un braccio. Tutto ciò riguarda la cura, e la qualità emotiva e morale della cura nella pratica medica.
Mentre qui abbiamo un’altra notevole opera di Rembrandt che raffigura il tema della cura nel contesto di una rapporto amoroso e coniugale: si tratta della cosiddetta Sposa ebrea. Non assistiamo a un gesto di lussuria di un marito che poggia la sua mano sul seno della sua sposa, bensì a un atto che sta a indicare una connessione morale, siamo in presenza dell’amore.
Questo invece è il grande dipinto intitolato Testa di Cristo. Credo sia una delle più potenti raffigurazioni di Cristo perché lo mostra non in quanto Dio ma in quanto uomo, enfatizzando la sua umanità, che è la stessa l’umanità di qualsiasi altro essere umano. E dopotutto, questo è ciò che la Pietà vuole sottolineare: essa tenta di mostrare che la sofferenza è interpersonale, che esiste nello spazio tra colui che soffre e la persona che presta le proprie cure. Vediamo poi il grande ritratto, anche questo dipinto da Rembrandt, di un medico olandese dell’epoca, Ephraïm Bueno, intitolato Ritratto di un uomo, probabilmente Ephraïm Bueno. Osservando il suo volto è possibile notare l’attenzione di quell’uomo verso gli altri, la compassione, la prontezza del sentire così come dell’agire.
Storicamente, nella tradizione cinese possiamo vedere illustrata la cura nelle immagini rupestri di Yun Kang. La cura in Afghanistan, Giappone e Africa ci porta a raffigurazioni contemporanee. Questa è una fotografia scattata da un mio collega nella nostra ong di Harvard Partners in Health, legata per un verso all’antropologia e alla medicina, per l’altro alla cura: vediamo una famiglia raccolta intorno a un malato di tubercolosi e HIV in punto di morte. E ciò mi porta all’ultimo punto che intendo affrontare a proposito della cura, illustrato da un’immagine del periodo in cui Picasso dipingeva visi come maschere africane, un’immagine che ritrae uno studente in medicina con un occhio aperto e uno chiuso. È questo ciò che intendo con soggettività legata al mondo morale: un occhio è aperto al mondo morale, perché ciascuno di noi deve procedere in quel mondo tenendo desta l’attenzione. Come diciamo in medicina, ti senti chiamato dentro le storie della malattia, esse esercitano su di te un’attrazione. Questo è l’occhio aperto e attento. Mentre l’altro occhio è chiuso per autoprotezione, per conservare in noi il senso dell’interesse personale, quella parte di interesse che comunque dobbiamo a noi stessi. Tale tensione tra lo slancio verso l’esterno e l’autoprotezione è insita nel conflitto che esiste all’interno mondo morale che sto postulando.
Penso che si possa teorizzare tutto ciò come il sé diviso. Questo concetto ha radici storiche nel lavoro di psicanalisti o di psicologi antropologici come William James e W.H.R. Rivers o persino di registi contemporanei come Woody Allen. Il riferimento è sia all’idea che l’interiorità è scissa e discordante, se non addirittura contraddittoria, e che al suo interno la persona presenta una frattura ed è in conflitto con se stessa, sia alla concezione che i diversi mondi locali richiamano diversi aspetti della persona. Nell’Autobiografia degli anni di mezzo e nel Carteggio Aspern, Henry James narra di uno scrittore in punto di morte assistito da un giovane medico che custodisce un segreto. Il suo segreto è che egli desidera essere un grande scrittore come il suo assistito e lo scrittore morente tenta di condividere con il giovane medico una verità relativa alla cura, alla scrittura e alla vita nel mondo. Dichiara: “Noi lavoriamo nell’oscurità: facciamo quel che possiamo, diamo quel che abbiamo. Il dubbio è passione, e le nostre passioni sono il nostro compito”.
Una possibile interpretazione di queste parole è che il nostro compito è il dubbio, è il compito dell’accademico e del medico, un compito professionale e sociale, un compito personale. Il compito è il dubbio, mettere continuamente in questione ciò che abbiamo imparato. Il mio suggerimento è che da quel dubbio debba scaturire una sorta di azione morale, per cui nei settori di cui mi occupo della medicina, della psichiatria, della salute globale e della sinologia, l’azione sociale debba emergere dal dubbio. E sostengo che l’antropologia della cura è una modalità attraverso la quale noi possiamo pensare di guarire le società e di far emergere azioni sociali per il futuro.