Da Haiti la testimonianza di Fiammetta Cappellini, impegnata nel Paese con l’ONG AVSI
Lo scorso 14 agosto un terremoto di magnitudo 7.2 ha colpito Haiti, con conseguenze devastanti: più di 2.500 morti e 12mila feriti, secondo i dati ufficiali, mancanza di acqua potabile e cibo, case e infrastrutture distrutte.
Un dramma di cui, con i riflettori del mondo puntati su un’altra tragedia – quella dell’Afghanistan – si parla purtroppo molto poco.
Per avere maggiori informazioni abbiamo contattato Fiammetta Cappellini, una vecchia conoscenza della Casa della Carità, che da oltre 15 anni è impegnata nel Paese con l’ONG AVSI.
Fiammetta, di che cosa si occupa AVSI ad Haiti?
AVSI lavora ad Haiti da più di 20 anni, chiamata nel Paese su richiesta del Nunzio Apostolico per avviare una fattoria sperimentale presso la Facoltà di Agraria dell’Università Cattolica di Notre Dame d’Haiti a Les Cayes. Da allora non ce ne siamo più andati e anzi, la presenza dell’organizzazione è molto cresciuta, con l’avvio di 5 basi territoriali dove sono attivi, a seconda delle caratteristiche del territorio in cui operiamo, progetti in ambito socioeducativo, promozione dei diritti umani, risoluzione pacifica dei conflitti, agricoltura e sicurezza alimentare, protezione dell’infanzia, rafforzamento economico e formazione.
Il terremoto, per quanto ne sappiamo, arriva in un periodo non facile per il Paese e dopo l’altro devastante sisma del 2010. Puoi dirci di più?
Negli ultimi 3 anni la situazione del Paese è andata gradualmente peggiorando: alla crisi politica già in corso, si è sommato un grave scandalo di corruzione su aiuti governativi dal Venezuela. E da lì è cominciata una spirale, che ha visto aggravarsi la crisi economica e, di conseguenza, un aumento delle proteste di piazza e dell’insicurezza: quando infatti la gente ha fame, perché sono anni che non ha lavoro, non ha più niente da perdere e si registra un incremento progressivo di livello di violenza. Haiti è infatti considerato uno dei paesi più pericolosi al mondo e dove si vive peggio. In questo panorama di vulnerabilità e fragilità, a luglio c’è stato l’assassinio del presidente Jovenel Moïse, di cui ancora non si capisce chi sono stati i mandati. Questo fatto ha ulteriormente destabilizzato il Paese, ma soprattutto ha generato un vuoto istituzionale che, nel post terremoto, significa un rallentamento della macchina degli aiuti.
Com’è la situazione in questo momento?
Il terremoto, molto violento, è avvenuto nella parte meridionale della penisola, una zona rurale caratterizzata da infrastrutture molto basiche e quindi anche difficile da raggiungere. Per questo, la nostra percezione è che le vittime siano molte di più delle 2.500 ufficiali, che sono quelle che si è riusciti a censire. E poi ci sono i feriti, molti dei quali non riescono a ricevere assistenza. Visto che è molto complicato spostarsi, infatti, chi non è gravissimo non ci prova nemmeno ad andare in ospedale. Ma le condizioni di queste persone potrebbero peggiorare nel tempo. Un altro grave problema è quello della malnutrizione, che ha da sempre tassi molto alti, ma in questa situazione bastano poche settimane perché i bambini rischino la vita in breve tempo. E inoltre, circa l’85% delle strutture è stato distrutto e ci vorranno anni per ricostruirle.
Che cosa serve ad Haiti in questo momento?
La risposta umanitaria, come ho detto, è stata rallentata dalla situazione di insicurezza e di vuoto istituzionale. Gli aiuti sono stati insufficienti e tardivi. Sarebbe necessario un intervento più rapido e coraggioso e anche un’attenzione più forte della comunità internazionale. Come organizzazione, abbiamo necessità di sostegno economico per fare di più e fare meglio perché, i bisogni sono enormi e i costi elevati. Ma anche vicinanza e attenzione ci incoraggiano molto e sono preziosi per il nostro staff.
[Le immagini di questo articolo sono tratte dalla pagina Facebook AVSI – Haiti]