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CHE COSA CI DICE IL “CASO CAIVANO” SULLE POLITICHE PER I GIOVANI

Una riflessione del nostro presidente don Paolo Selmi sui fatti di cronaca che la scorsa estate hanno coinvolto giovani e giovanissimi, a partire dal “caso Caivano”.

La scorsa estate abbiamo assistito a tremendi fatti di cronaca che hanno purtroppo coinvolto persone giovani e giovanissime.

Per rispondere a questi accadimenti, il governo ha presentato alcune misure, contenute nel cosiddetto “Decreto Caivano” (che prende appunto il nome da una delle zone dove si sono verificati alcuni di questi fatti), che vanno dall’inasprimento delle pene per i reati commessi dai minorenni alla possibilità di vietare loro di possedere o utilizzare telefoni cellulari, fino al “daspo urbano”, ossia il divieto di accedere a un determinato luogo per motivi di ordine pubblico.

Saranno sufficienti queste misure ad arginare i fenomeni di violenza che coinvolgono i più giovani? Io temo di no. Ho piuttosto l’impressione che, sull’onda dell’emotività generata da questi fatti, si siano proposte delle misure che creano consenso nell’opinione pubblica, ma che si rivelano spesso controproducenti e irrealizzabili. Me lo ha confermato Tea Geromini, responsabile del settore “Percorsi sociali” della Casa della Carità, che da tempo si occupa di questi problemi e con cui mi sono confrontato.

Il “caso Caivano” e le politiche per giovani e giovanissimi

E se invece ci fosse qualcosa da imparare da quanto accaduto a Caivano? 

La storia ci ha insegnato che la giustizia “di pancia” finisce per calpestare il senso di sistemi che sono stati il frutto di attente e lunghe meditazioni e mediazioni. Come il sistema italiano del diritto penale minorile, che si è sviluppato per ridurre al minimo il ricorso alla carcerazione, facendo uscire al più presto il minore dal circuito penale e accompagnandolo in un percorso di responsabilizzazione, educazione e sviluppo psico-fisico, per prepararlo a una vita “libera” e per prevenire la commissione di ulteriori reati.

Penso quindi sia un errore, soprattutto in un contesto di sovraffollamento del sistema penitenziario dove le condizioni in cui le persone vivono provocano recidive costanti, pensare “più carcere per più sicurezza”. A mio parere, serve, invece, aumentare gli investimenti educativi, favorire il ricorso alle misure alternative (come messa alla prova, misure penali di comunità, percorsi di giustizia riparativa e di mediazione con le vittime di reato) e, per i pochi minori che in carcere vi finiscono, investire in personale negli istituti.

Occorre poi ricostruire un patto di fiducia: quello che è accaduto è anche il risultato di decenni di assenza di politiche sociali ed educative e di impoverimento delle risorse in aree periferiche abitate spesso da rabbia, paura, risentimento legati a condizioni economiche precarie e degrado materiale

Non si tratta quindi di “bonificare” queste aree dagli “scarti”, quanto di mettere i cittadini che vi abitano nella condizione di poter esigere e agire diritti di cittadinanza che spettano a tutte e tutti, quali lavoro, istruzione, casa, salute.

Non solo repressione, ma educazione e ascolto

La strada su cui proseguire, io credo, è quella paziente e non rumorosa che investe in riqualificazione dei territori, implementazione di servizi socio-educativi, ascolto delle tante associazioni che, nel loro piccolo, cercano di allontanare i giovani dal rischio di influenze criminali. «Non un esercito in divisa, ma un esercito di insegnanti, assistenti sociali, educatori, operatori della cultura», per citare Eugenia Carfora, preside della scuola di Caivano.

Mi viene in mente la vicenda di una ragazza che ho conosciuto alla parrocchia di Bruzzano, quartiere difficile della periferia milanese dove sono stato parroco per 10 anni, prima di diventare presidente della Casa della Carità. Qui negli anni si è creata una stretta collaborazione tra la parrocchia, l’oratorio e il centro di aggregazione giovanile guidato dalla Fondazione Aquilone, a partire dalla messa a disposizione di alcuni spazi per ragazze e ragazzi: dal campo di calcio a quello di pallavolo alle sale dell’oratorio.

Questi spazi sono stati un mezzo per entrare in relazione con molte persone giovani, conoscerle, entrare nelle loro vite e accompagnarle, anche in situazioni complesse.

Come appunto quella che viveva questa ragazza, proveniente da una famiglia attiva nel contesto mafioso e criminale della zona. Grazie a questo sguardo comune che queste realtà, messe insieme, hanno potuto avere, questa ragazza è riuscita a staccarsi dal contesto di povertà culturale, omertà e delinquenza della sua famiglia di origine, aiutandola anche a prendere una posizione chiara che le ha fatto dire «io con loro non ci sto più».

Questa è una piccola vicenda, che dice però quanto sia importante prestare vera attenzione ai giovani.

Comportamenti violenti e all’eccesso, infatti, sono spesso espressione di malessere, di incapacità di riconoscere ed esprimere emozioni, di necessità di apparire o di essere riconosciuti. E questo si innesta su un crescente e sottovalutato uso/abuso di alcool, droghe e psicofarmaci, che sono spesso risposte per mettere a tacere inquietudini che non si sanno esprimere, per l’assenza sia di un vocabolario emotivo, sia di adulti capaci di ascoltare e accogliere questo disagio.

Questa partita si gioca, e lo sappiamo da decenni, sul terreno della formazione e dell’educazione, solo timidamente accennate nel decreto, e con misure che contrastino la povertà economica ed educativa.

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