Abbiamo intervistato don Paolo Selmi, presidente della Casa della Carità dal febbraio 2023.
Don Paolo Selmi è Presidente della Casa della Carità da febbraio 2023, quando ha preso il posto di don Virginio Colmegna, che guidava la Fondazione fin dalla sua nascita.
A volerlo alla guida della Casa è stato l’Arcivescovo di Milano monsignor Mario Delpini, che lo ha anche designato Vicedirettore della Caritas Ambrosiana.
Lo abbiamo intervistato per conoscerlo meglio.
Leggi l’intervista a don Paolo Selmi
Don Paolo, qual è stato il tuo percorso di sacerdote?
Dopo il seminario, nel 1991 la prima destinazione è stata nella parrocchia Santa Maria del Rosario in via Solari, dove ho fatto il coadiutore, cioè il prete dell’Oratorio, per 5 anni. Era un contesto molto diverso da come è oggi, perché era ancora una zona di grandi ditte, con una diversità di presenze: la borghesia milanese insieme agli abitanti delle case di ringhiera, che allora erano spesso in condizioni di degrado. La parrocchia ha fatto del quartiere una casa, accogliendo le diverse anime del quartiere.
Nel 1996 il Vescovo mi chiese di spostarmi a qualche chilometro di distanza e andare in Barona, a occuparmi di una nascente Unità Pastorale giovanile tra le parrocchie di San Giovanni Bono e Santa Bernardetta. Qui il contesto era totalmente diverso: una periferia di case popolari, che però fino al ’68 era ancora ricca di cascine; successivamente mentre il centro si svuotava, molte famiglie si sono spostate qui, dove è stato costruito un “quartiere modello”, con la parrocchia al centro. Il quartiere non aveva quindi una lunga storia, ma questa storia è stata costruita man mano dalla fine degli anni ’60. L’avvio dell’unità pastorale giovanile è stata un po’ faticosa agli inizi, ma poi ha rappresentato una ricchezza: le due parrocchie si sono ben integrate, e i giovani hanno fatto da volano in questo, diventando un luogo di aggregazione e incontro.
Dopo 9 anni da prete dei due Oratori sono poi diventato parroco: fino al 2012 di San Giovanni Bono e Santa Bernardetta e poi fino al 2014 anche di San Nazaro e Celso, una parrocchia storica, segnata dalla presenza di don Roberto Rondanini, che era stato un po’ il motore della carità, dall’accoglienza degli immigrati all’apertura di uno spazio di preghiera per i musulmani fino all’accoglienza dei Rom. Una parrocchia che ha segnato anche il decanato di questo spirito caritativo inserita in un territorio in forte cambiamento, perché nel frattempo in quella zona hanno costruito lo Iulm con le sue residenze universitarie. È stato quindi un integrarsi di storie ed esperienze.
Poi nel 2014 sono andato a Bruzzano, in un contesto ancora diverso dai precedenti, perché qui c’era una storia che datava al 1200 e quindi chi, con il tempo, è arrivato ad abitare nelle case popolari ha trovato un passato con cui confrontarsi. Questo incontro tra vecchio e nuovo credo sia la ricchezza di Bruzzano, dove la parrocchia, anche per presenza dell’Associazione V.S.P. Bruzzano prima e della Fondazione Aquilone poi (Onlus che gestisce servizi rivolti ad anziani, famiglie, bambini, adolescenti e persone con disabilità, ndr), è sempre stata riconosciuta come parte fondamentale del quartiere, in un intreccio tra comunità civile e religiosa.
Insomma, le periferie ci sono sempre state nella tua storia…
Sì, mi hanno accompagnato. Anche la mia storia personale inizia in una periferia, che in realtà è un paese della provincia di Milano, Settala. Qui lo stile del parroco don Giovanni Brovelli, un prete che ha sempre aperto la sua casa agli ultimi, ha contagiato anche la comunità con la nascita, negli anni ‘80, di realtà per l’accoglienza degli immigrati, comunità mamma-bambino, attenzione al tema dello sfruttamento della prostituzione. E devo dire che anche la mia famiglia, nonostante fosse già una famiglia numerosa, con sei figli, ha sempre vissuto con le porte di casa aperte, trovando posto per accogliere qualcuno in difficoltà.
Nell’ultima periferia in cui ti trovi ancora come sacerdote, c’è stato il primo incontro con la Casa della Carità nel biennio 2015-2016, quando insieme alla Parrocchia della Beata Vergine Assunta in Bruzzano era stato organizzato un progetto di accoglienza straordinaria dei profughi in transito a Milano. Che ricordo hai di quell’esperienza?
Conoscevo già la Casa e avevo già avuto alcuni contatti con la Fondazione, ma l’accoglienza estiva dei profughi è stata la prima e più forte esperienza di collaborazione. Quella del 2015 era la mia prima estate come parroco di Bruzzano. Per cui, quando dalla Casa della Carità è arrivata la richiesta di continuare l’esperienza di accoglienza dei profughi fatta l’estate precedente con la parrocchia dell’Annunciazione di Affori, ne ho parlato con il consiglio pastorale perché, essendo nuovo, non mi andava di imporre una scelta. Il consiglio ha detto subito di sì e così abbiamo iniziato coinvolgendo il quartiere in un incontro informativo e per contarci, per capire quali forze volontarie avremmo avuto. Quella sera me la ricordo molto bene perché, a fronte di una sala preparata con 30-35 sedie, abbiamo dovuto allargare il cerchio sempre di più fino a 100-120 sedie. Quello era anche il segnale che tutto il quartiere, e non solo quello che frequentava la parrocchia, ci stava e quindi abbiamo iniziato.
Credo sia stata un’esperienza molto positiva, perché ha dato alla comunità l’opportunità di riguardare il suo essere aperta agli ultimi e alle emergenze e il suo modo di fare carità. Abbiamo contato che in ognuna di quelle due estati abbiamo vissuto 40 giorni di accoglienza, in cui sono passati centinaia di profughi siriani, eritrei, somali ma anche pachistani e bangladesi. La cosa bella è che qualcuno ha perfino saltato le vacanze per fare questa esperienza, in cui c’è stata una stretta collaborazione tra la Casa della Carità, che ci ha messo le sue professionalità, e la parrocchia che ha messo ha disposizione la struttura dell’Oratorio e il volontariato, fatto di famiglie intere e anche giovani che si sono dedicati all’accoglienza.
Hai parlato di quei 40 giorni dell’accoglienza dei profughi e hai raccontato che 40 giorni sono stati il tempo che ti sei preso quando la Diocesi ti ha fatto la proposta di diventare presidente della Casa della Carità. Come hai vissuto questa nomina?
Devo dire che questa cosa dei 40 giorni l’ho vissuta come un dono e un’opportunità. La vita, infatti, è un cammino che si condivide con gli altri, vedi i 40 giorni dei profughi, ed è un cammino personale che si intreccia con il camminare di Dio con noi. La proposta è arrivata improvvisa, con il Vicario Generale monsignor Franco Agnesi, che mi aveva detto di voler venire a trovarmi a Bruzzano. Così, nel corso di una chiacchierata fraterna, mi ha fatto la proposta di diventare Presidente della Casa della Carità e Vicedirettore di Caritas Ambrosiana.
Questa cosa mi ha un po’ scombussolato, per la grandezza e la bellezza dell’incarico che mi veniva proposto. Mi ha scombinato anche fisicamente perché, fino a che non ho detto di sì, la pressione è rimasta alta.
Conoscevo infatti la Casa per l’esperienza fatta insieme e conoscevo don Virginio e la sua storia, il suo essere profetico, creativo, politico; una vita che è nata così, come una grande battaglia per la giustizia sociale, per i poveri. Io mi sento un prete normale. E poi anche Caritas Ambrosiana è un mondo enorme. Avevo come l’impressione di sentirmi schiacciato da un peso, seppur bello. Questo mi ha obbligato a prendermi del tempo. Inizialmente mi ero preso 10 giorni, che poi sono diventati 20 e poi 30 e poi 40, perché avevo bisogno di confronto, con fratelli più grandi di me come don Franco Brovelli e altri sacerdoti e famiglie amiche e anche con qualcuno della comunità.
Dopo aver detto di sì la pressione si è abbassata e poi quando il 23 novembre 2022, in occasione del 20° anniversario della Fondazione, c’è stato l’incontro con la Casa e con don Virginio, la pressione si è pacificata. Mi sono sentito a casa e accolto da don Virginio con quell’abbraccio che non è stato per nulla costruito, ma vissuto e mi ha fatto bene.
Questo non toglie la grandezza dell’incarico, che accolgo come un dono in cui investire, in cui però so di non essere solo perché la Casa ha una storia di 20 anni e uno staff creativo, che lavora con passione.
A ordinarti sacerdote è stato il Cardinale Carlo Maria Martini, che ha voluto la nostra Casa quale luogo di accoglienza per “i più sprovveduti”, ma anche come luogo di cultura aperto alla città. Qual è un insegnamento o un segno del Cardinal Martini che porterai con te nel tuo ruolo di Presidente della Casa della Carità?
Quello che mi porto di Martini in questo inizio sono tre cose: il suo essere padre, la speranza con cui ci ha sempre aiutati a leggere la storia nella sua complessità e le radici che questa speranza trova nella storia della Salvezza raccontata nella Bibbia.
Il primo segno deriva dall’abbraccio che Martini mi diede all’ordinazione presbiterale: un abbraccio che mi ha avvolto, un abbraccio di padre.
L’altro insegnamento con cui entro in Casa della Carità è legato alla sua vita e al suo modo di guardare alla storia umana non come una storia abbandonata a se stessa, ma accompagnata da Dio. Per cui la Casa della Carità voluta da Martini la vedo come un segno speranza data agli ultimi. Nonostante ogni comunità cristiana abbia una Caritas parrocchiale e sia marcata da esperienze di volontariato che si avvicinano ai giovani, agli anziani e a chi è più in difficoltà, la Casa della Carità è un segno unico per la città, per esempio anche per il fatto che i due garanti siano l’Arcivescovo e il Sindaco, dove le varie anime che la abitano possono trovare un luogo per prendersi cura e dare speranza ai poveri.
La terza cosa è che Martini, questa speranza, la legge a partire dalla Bibbia. La cosa che mi stupiva di lui è che, in ogni situazione si trovasse, da quelle più alte a quelle più basse, dalle più complicate alle più semplici, lui apriva la Parola di Dio e partire dalla storia della Salvezza ci aiutava a leggere il presente.
In queste settimane i cristiani vivono la Quaresima, che prepara alla celebrazione della Pasqua. Qual è per te il senso di questo tempo in un luogo di accoglienza come la Casa?
La cosa che da subito mi ha colpito il 23 novembre è il sottolineare che qui siamo a casa e che questa è una casa per tutti. Quindi la Quaresima legata a questo luogo – anche se non ci sono ancora dentro appieno, perché fino a fine agosto sarò parroco a Bruzzano – la leggo come cammino di resurrezione. Pur nelle fatiche dei singoli percorsi degli ospiti o attraversati da fatti anche bui che segnano la vita degli operatori e dei volontari, come alcuni recenti lutti, mi piace vedere che in questa Casa ci si accompagna verso la vita e si offre la vita per i poveri mentre loro la danno a noi, aiutandoci a viverla in maniera intensa.
La Quaresima quest’anno cade, per alcuni giorni, nello stesso periodo del Ramadan. Alla Casa della Carità le persone ospiti e gli operatori vivranno insieme questo tempo che per le due confessioni ha caratteristiche in parte simili, in parte diverse. Come si può nel nostro presente e nella nostra quotidianità costruire questo dialogo con gli altri, come ci invita a fare Papa Francesco nella sua ultima enciclica Fratelli tutti, ma come già aveva detto il cardinal Martini a suo tempo?
Devo dire che questo tema mi ha molto accompagnato. Martini nel 1990 aveva fatto un Discorso alla città, per Sant’Ambrogio, che si intitolava “Noi e l’Islam” e che per i tempi sembrava una cosa strana, in cui invitava i cristiani a superare la paura e vivere il Vangelo. E anche a Bruzzano, dopo gli attentati di Parigi del 2015, con le famiglie cristiane e quelle musulmane del quartiere avevamo organizzato una marcia che avevamo chiamato di “stima reciproca” e poi altri incontri di approfondimento e dialogo interreligioso. Però poi il sentore era che ognuno rimanesse sulle sue posizioni.
Sono quindi curioso di vedere come si vive questo incontro alla Casa e spero che, al di là del reciproco rispetto e la reciproca stima, che sono già un primo passo, non si viaggi su due piani paralleli ma distanti, ma ci si possa sentire costruttori insieme di una storia di salvezza, ognuno a partire dal suo percorso di fede.
Il fatto che la Quaresima e il Ramadan capitino nello stesso periodo credo sia un’opportunità in più, perché ci sono dei segni comuni che ci caratterizzano – il digiuno, la preghiera, il pellegrinaggio – e sarebbe bello partire da questi provare a incamminarci insieme.