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I custodi sociali costruttori di reti e possibilità

I custodi sociali lavorano con chi ha una casa, ma fatica ad avere relazioni. Aiutano persone fragili a creare reti e possibilità. Ne parliamo con Alberto Pluda.

Da diversi anni, tra gli operatori della Casa della Carità ci sono anche i custodi sociali, che hanno il compito di seguire cittadine e cittadini che, nelle case popolari del Municipio 2 di Milano, vivono in condizioni di fragilità o marginalità sociale, supportando nell’accesso ai servizi di prossimità e promuovendo occasioni di socialità.

Sono figure che, in collaborazione con i Servizi sociali del Comune di Milano, si occupano di persone che hanno una casa ma che, per il fatto di essere anziane, avere una disabilità o una fragilità psico-fisica, hanno soprattutto un bisogno relazionale e vivono la mancanza di una rete familiare o amicale, che consentirebbe loro di gestire in autonomia la vita quotidiana.

Creare reti e possibilità e sviluppare capacità

Spiega Alberto Pluda, custode sociale e coordinatore del laboratorio di teatro terapia della Casa: «L’esperienza sul campo ci dice che la casa è condizione necessaria, ma non sufficiente per vivere bene. È un punto di partenza, non un punto di arrivo. Per esempio, noi seguiamo persone che vivevano sulla strada e che hanno fatto tutto il percorso dal dormitorio fino all’alloggio popolare. Ma non si può pensare che basti aver dato loro un tetto sopra la testa, affinché i loro problemi siano risolti. Sono infatti persone fragili che, per esempio, a volte non sono nemmeno in grado di gestire una casa. Penso al caso di alcune persone che erano entrate nei loro alloggi da un anno e non avevano ancora fatto gli allacciamenti, non perché non avevano i soldi, ma perché non sapevano come fare».

I custodi sociali lavorano dunque per offrire supporto pratico in queste situazioni, ma anche e soprattutto costruire intorno a queste persone una rete, a inserirle nel territorio, trovare possibilità occupazionali se sono in età lavorativa, metterle in contatto con il mondo esterno, promuovendo occasioni di socialità.

Andare oltre l’assistenzialismo

Eppure, spiega Alberto, il ruolo del custode sociale rischia di “burocratizzarsi”: «Se dovessimo seguire alla lettera le ultime linee guida, dovremmo attivarci solo quando dai servizi ci arriva la segnalazione di una persona che dobbiamo seguire per rispondere a un suo bisogno concreto, per poi terminare il nostro intervento una volta che il bisogno si è risolto. In questo modo, però, i custodi non sono più persone che aiutano a creare reti e possibilità e a sviluppare capacità».

I custodi cercano però di andare oltre questo ruolo meramente assistenzialistico. In questo senso, una delle proposte della Casa è il laboratorio di teatro terapia, coordinato proprio da Alberto: «Il laboratorio permette di creare una relazione molto forte, diversa dalla semplice risposta al bisogno pratico. Questo permette loro di sperimentarsi su nuove possibili capacità. E funziona: penso per esempio a due donne che seguo, che non uscivano di casa. Quando sono andato le prime volte a bussare alla loro porta, loro nemmeno aprivano. Le abbiamo inizialmente agganciate rispondendo a loro bisogni concreti, ma poi la relazione è continuata. Ora frequentano il laboratorio e recitano sul palco. E non dico che hanno completamente superato le loro paure, ma che riescono a guardarle con strumenti diversi».

Sviluppare capacità che hanno una ricaduta positiva su tutta la società

Grazie a questo tipo di attività le persone non rimangono soggetti passivi di aiuto, ma, grazie alle competenze acquisite, possono diventare esse stesse riferimento per persone che hanno altre fragilità, dando loro aiuto o indicazioni verso nuove direzioni; possono offrire a loro volta strumenti per superare certe difficoltà. E questo ha una ricaduta positiva su tutta la società.

Esempio di buona attivazione del servizio e delle possibilità che può creare è la storia di due persone che si sono conosciute nei momenti di socialità proposti dai custodi sociali e, dice Alberto, «Hanno costruito una relazione importante, da loro definita di “amore dell’anima”. Sono diventati l’uno l’attivazione dell’altra. Hanno messo in condivisione le loro capacità e ampliato così autonomie e abilità. Massimo, nel semplice esserci, ha consentito a Ivana di superare paure, angosce e isolamento. Infatti Ivana non usciva più di casa in quanto vittima di attacchi di panico e non era in grado di stare in mezzo ad altre persone. Adesso, con la compagnia di Massimo si è riaperta al mondo, prende i mezzi pubblici, partecipa a laboratori e eventi, va al cinema e a fare la spesa. Massimo, nel relazionarsi a lei, ha ritrovato stimoli e supera la sua proverbiale pigrizia, fisica e mentale, e ha una valida spalla per le questioni burocratiche e gli accompagnamenti sanitari. Dove non arriva lui, ci arriva Ivana. Si muovono sempre in coppia e hanno trovato il modo di colmare le loro fragilità e in più sono propositivi verso altre persone, che cercano di coinvolgere su eventi e momenti ricreativi ai quali partecipano, anche fuori dalla custodia sociale, e si offrono per accompagnare e aiutare chi ne avesse bisogno».

«Purtroppo – commenta amaramente Alberto in conclusione – i servizi sono al collasso e spesso remano in direzione opposta. Ma per fare in modo che il nostro lavoro abbia veramente una ricaduta positiva, abbiamo bisogno di trovare nei servizi persone che vadano oltre il compitino che viene loro assegnato, che abbiano ancora voglia di spendersi per cambiare da dentro il modo di accogliere, aiutare, prendersi cura».


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