Abbiamo chiesto a Cecilia Trotto, responsabile della Biblioteca del Confine della Casa della Carità – che da anni realizza progetti culturali nel carcere di San Vittore a Milano – di raccontarci il suo punto di vista sulla situazione esplosiva delle carcere in Italia.
La situazione del carcere in Italia, già molto difficile, nelle ultime settimane è diventata esplosiva. Le proteste delle persone detenute per le condizioni di vita nei penitenziari – dove c’è un tasso di sovraffollamento al 130,6% secondo l’ultimo rapporto dell’Associazione Antigone di luglio 20241 – sono all’ordine del giorno e purtroppo, quasi quotidianamente, si registra la notizia di un suicidio tra le persone detenute, già 602 dall’inizio del 2024, a cui si aggiungono 4 agenti della polizia penitenziaria che si sono tolti la vita nel corso dell’anno.
Abbiamo chiesto a Cecilia Trotto, responsabile della Biblioteca del Confine della Casa della Carità – che da anni realizza progetti culturali nel carcere di San Vittore a Milano, come La Società di Lettura e Pagine di Libertà – di raccontarci il suo punto di vista su quello che sta succedendo.
Il carcere in Italia: una bomba già esplosa
Come operatrice della Casa della Carità, entro nel carcere di Milano San Vittore dal 2015 per progetti culturali, che rientrano nell’ambito di attività trattamentali che coinvolgono attivamente giovani studenti di licei milanesi dentro e fuori le mura, a stretto contatto con le persone detenute.
Non posso che constatare che i recenti allarmi e conseguenti articoli che ritraggono un’immagine penosa della condizione delle carceri italiane e, in particolare, della situazione della Casa Circondariale di Milano San Vittore con un sovraffollamento arrivato al 240%, siano in linea con la realtà incontriamo nello svolgimento delle nostre attività all’interno del carcere.
Ogni incontro facciamo i conti con: sovraffollamento, mancanza di personale, condizioni sempre più allarmanti di disagio psichico e conseguente abuso di trattamenti terapeutici, oltre che una percentuale in aumento di persone ristrette sempre più giovani, straniere e prive delle minime condizioni sociolinguistiche per poter accedere ai diritti elementari previsti, come la scuola, i colloqui, le visite mediche…
Una bomba che, più che in attesa di esplosione, è da considerarsi esplosa. È da tempo, infatti, che se ne discute, ma la situazione è andata oltre i limiti consentiti, per cui ora serve un cambiamento fattivo. Forse anche, facendo un po’ di autocritica, rispetto al modo in cui la società civile denuncia la condizione delle carceri.
Basti pensare alla tragedia delle 60 persone che si sono tolte la vita in carcere dall’inizio del 2024, al sovraffollamento che ha raggiunto le oltre 10.000 persone rispetto alla capienza delle carceri (61.547 persone detenute ad oggi, a fronte di una capienza di poco più di 50.000 persone), davanti ai numeri in crescita di autolesionismo, con una sofferenza psichica diagnosticata del 12% delle persone detenute; davanti al 25% delle persone detenute dipendenti da sostanze stupefacenti, davanti a carceri che cadono a pezzi e davanti ad appelli ignorati (Sottocommissione Carceri, Milano 4.7.2024).
Nonostante questi dati, ci troviamo oggi dinnanzi ad un decreto legge che non è in grado di fare fronte al dramma dei suicidi e del sovraffollamento in crescita e ignora del tutto investimenti nell’ambito della sanità penitenziaria, della formazione, della scuola, per non parlare di interventi sulla depenalizzazione ed estensione alle misure alternative.
Progetti culturali, dal grande valore sociale
Andiamo avanti nel nostro quotidiano facendo leva sull’eccezionalità e rarità di figure professionali che, nonostante il contesto penitenziario descritto, lavorano mettendo ancora al centro la persona e il suo sistema di diritti e credono quindi che la promozione di progetti come i nostri abbia non solo un valore culturale, ma soprattutto sociale:
- parlare anche delle risorse che le persone detenute hanno, se messe nelle condizioni di comunicare e uscire dalla bolla di sofferenza nella quale sono recluse
- far conoscere ai giovani studenti, professionisti di domani e magari giudici/avvocati/magistrati/educatori/medici e meno banalmente cittadini attivi e informati, altri giovani che spesso oltre alle etichette di “detenuto”, “criminale”, “tossico” e così via si portano dietro un passato di abusi, dispersione scolastica, problematiche familiari, criminalità organizzata, abbandono, drammi migratori e sofferenze, che solo in rarissimi casi avrebbero potuto produrre percorsi di vita estranei all’illegalità, alle dipendenze e alle devianze in generale
- abbattere il pregiudizio nell’accezione più concreta possibile, ovvero, facendo conoscere grandi talenti e ottimi studenti che emergono lezione dopo lezione laddove messi nelle condizioni di capire e seguire il percorso, oltre che in primis essere ascoltati e accompagnati
- anche solo far emergere “nuovi studenti” mediocri e non, ma comunque studenti che usufruiscono del diritto allo studio che, se non altro, li supporta in una comunicazione più consapevole cosa che, nel contesto in cui vivono, assume un valore non indifferente se mai lo fosse in generale
- trovarsi nella libera naturalezza di un incontro tra persone, spesso vicine per età e anche per interessi, nonostante vi sia un abisso tra le basi di partenza, che attraverso la lettura, il teatro, la scrittura e lo scambio di opinioni produce spensieratezza e progettualità, voglia di cambiamento e anche autoanalisi
- a questo poi va aggiunto il lavoro di rete rispetto ai bisogni intercettati e che riguarda l’ascolto, la segnalazione delle situazioni più gravi, un’analisi dei bisogni e il contatto con le figure di riferimento più adeguate
Quelli che la Casa della Carità e le altre organizzazioni portano avanti nel carcere di San Vittore sono progetti costosi, lunghi e spesso svolti solo grazie alla sovvenzione degli stessi enti che li progettano e realizzano e si parla di privato sociale e istituzioni scolastiche pubbliche del milanese.
Per quanti sforzi facciamo, per quante ore extra dedichiamo agli studenti e anche valutando i risultati incalcolabili di un futuro domani, se pensiamo alle ricadute sociali che a catena possono derivare dal coinvolgimento di giovani studenti, delle loro famiglie, dei loro contatti, viene da domandarsi: che cosa rappresentiamo in termini di risposta ai bisogni all’interno di un sistema come quello che denunciamo?
Ribaltare la prospettiva: da numeri a persone
Chiederselo è a mio parere doveroso, per cercare finanziamenti e reti che possano sviluppare sempre più progetti come questi che portano dentro alle carceri anche studenti minorenni, ma certamente non per restare in attesa di un controcanto che ci dica “sono troppo pochi i numeri e troppo onerosi gli sforzi”. Perché stiamo parlando di persone, di nomi, di storie di vita che vanno rispettate, di padri e madri che devono potersi fare carico dei propri errori, ma anche dei propri figli e del loro futuro. Perché stiamo parlando di giovani studenti che meritano di essere considerati sufficientemente intelligenti da potersi rapportare con coetanei che hanno storie lontanissime dalle loro e che possono superare i più facili pregiudizi che nascono dal bisogno di separare i buoni dai cattivi, capendo che la separazione non fa altro che allontanare chi deve invece essere rieducato.
Poi arrivano gli scritti degli studenti detenuti e non che a fine corso buttano fuori l’esperienza fatta insieme, i valori e i propri vissuti in vista dei due eventi pubblici che a BookCity Milano sociale e scuole racconteranno il progetto alla città. Mi sento fortunata a leggere queste storie perché sono sintomo di intelligenza, di possibilità di cambiamento, di speranza, ma soprattutto uno strumento efficace per dialogare con quelle Istituzioni a cui fa carico l’esercizio dell’esecuzione penale.
E io, più che un protagonista di Mediterraneo di Salvatores, come talvolta bonariamente ci definiamo tra colleghi di un sistema che non funziona, mi sento invece tra le mani una possibilità che per quanto limitata nei numeri è potentissima e con ricadute incalcolabili. Al tempo stesso avverto l’urgenza, quando quest’autunno racconteremo i nostri progetti nell’edizione di 2024 BookCity Milano, di essere più capace di comunicare questi racconti nei luoghi più scomodi e meno propensi ad abbattere i pregiudizi e a sviluppare quella società dell’incontro che sta alla base della depenalizzazione, delle misure alternative, dell’accoglienza e del reinserimento sociale delle persone detenute.
Forse possiamo ribaltare la prospettiva: se i numeri non sono sufficienti a dare idea del problema e a denunciare questa condizione delle carceri italiane, proviamo a parlare delle singole persone che questo mondo lo abitano e delle capacità che possono sviluppare anche con percorsi così piccoli nel tempo e nello spazio di una vita, oppure, attraverso gli occhi dei nostri figli che per qualche mese frequentano le carceri al posto delle proprie classi.
Lascio a Dario, uno per tutti, la staffilata finale a mio avviso decisiva per la potenza metaforica di San Vittore e della coltre di neve:
“Se non altro, nelle luminose classi (parevano essere l’unico locale luminoso di tutta la struttura) della scuola interna a San Vittore abbiamo costruito un ponte che collegava ambo i lati di questa realtà speculare. Muniti di metaforiche piccozze abbiamo scavato nel profondo della neve, del gelo, e forse dopo il nostro passaggio filtrerà qualche goccia di calore in più. Forse si potrà raggiungere un giorno l’integrazione completa, la fusione della calotta, e i cittadini liberi e detenuti della nostra Milano potranno accorgersi di star guardando lo stesso cielo (troppo spesso nuvoloso) da entrambi i lati delle mura. D’altro canto le voci inaspettatamente sagge di molti abitanti della casa circondariale ci hanno insegnato che anche sotto al manto si sopravvive, anche circondati da sofferenza si può trovare rifugio, anche nella monotonia si può trovare gioco. Ci hanno esposto al loro passato, alle loro lacrime, ai loro sogni; con un coraggio che a stento ritroverò in altri. E così facendo ci hanno fornito i mezzi per affrontare con maturità e dignità ogni nostra disperazione, e quei momenti dove vorremmo ricoprirci anche noi di piccoli ghiacciai”.