I cattolici possono portare in politica la passione per gli insegnamenti di Gesù. Un Gesù che da ricco che era si è fatto povero.
Il dibattito che si è aperto negli ultimi tempi sull’impegno dei cattolici in politica mi ha fatto ripensare al libro «Una vocazione controcorrente», frutto del dialogo tra la mia esperienza e un ebreo non credente e una suora contemplativa. A tornarmi in mente, quella traccia che posso chiamare la profezia della condivisione della radicalità del Vangelo.
Essere segnati dalla Parola di Dio significa essere segnati da quella profezia, che è poi la possibilità di scommettere sul futuro. In questo senso, Papa Francesco nella Gaudete et exsultate ci dice di avere due capisaldi: Matteo 25 e il Linguaggio delle Beatitudini.
Tutto questo mi restituisce il senso di una religione da non consumare nel mercato del dibattito pubblico, di una religione da sottrarre alla strumentalizzazione, a un utilizzo per fini individualistici. Questo modo di vivere la fede mi riconsegna un rovesciamento di prospettiva: occorre partire non da noi stessi, ma dai temi della fraternità, dei poveri, della giustizia. È qui che a mio avviso risiede l’intensa vocazione di essere discepoli del Signore.
Ecco perché in un periodo in cui si ritorna a evocare una religione che entra in politica e nelle istituzioni, penso sia da ribadire l’immagine di una Chiesa in uscita, una Chiesa come ospedale da campo, una Chiesa che parta dalla fragilità, dalla debolezza e dalla non onnipotenza.
La fede è essere discepoli di Gesù, seguaci dei suoi insegnamenti. Fedeli di un Gesù povero, che da ricco che era si è fatto povero. È semmai questa passione che va immessa in politica, come capacità di ragionare e riflettere. Questa è anche la novità che ci propone Papa Francesco: farsi travolgere dal messaggio straordinario dell’annunciare il Vangelo oggi.