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I 100 ANNI DI FRANCO BASAGLIA, LO PSICHIATRA CHE CHIUSE I MANICOMI

Leggi la storia di Franco Basaglia, il pioniere della riforma psichiatrica e della legge 180 in Italia. Scopri di più con la Casa della Carità.

L’11 marzo 2024 ricorrono i 100 anni dalla nascita di Franco Basaglia, il medico che ha dato il nome alla più importante riforma della psichiatria in Italia, che ha portato alla chiusura dei manicomi e a un nuovo approccio nella cura della malattia mentale che coinvolgesse la comunità nella sua interezza, avviando la cosiddetta “deistituzionalizzazione”.

La Casa della Carità ha fatto suo l’insegnamento di Basaglia non solo nel campo della salute mentale, ma adottando il metodo della deistituzionalizzazione e traducendolo in tutte le sue attività di accoglienza e cura di persone fragili.

Questo spiega perché, in occasione del centenario, vogliamo ricordare la figura di Franco Basaglia.

Chi era e che cosa ha fatto Franco Basaglia

Franco Basaglia nasce a Venezia l’11 marzo 1924. Dopo 13 anni come docente di psichiatria all’Università di Padova, nel 1961 vince il concorso di direttore all’ospedale psichiatrico di Gorizia, dove entra in contatto con le terribili condizioni di vita delle persone ricoverate: uomini, donne e persino ragazzi, spesso vincolati nelle camicie di forza o nei letti di contenzione, sottoposti a trattamenti inumani come elettroshock, lobotomie e bagni ghiacciati; sedati con un uso massiccio di psicofarmaci.

In quegli anni, infatti, le persone con sofferenza psichica sono considerate pericolose per sé e per gli altri e quindi sono tenute separate e nascoste dal resto della società in luoghi chiusi e isolati, quali erano appunto i manicomi, dove spesso vengono sostanzialmente abbandonate. Non c’è cura ma controllo.

Come ha scritto alcuni anni fa Peppe dell’Acqua, allievo di Basaglia: «La malattia nascondeva ogni cosa. I nomi e le passioni, le storie e i sentimenti, i bisogni e le emozioni non hanno mai abitato quel luogo. E la cura, neanche a pensarci».

A Gorizia allora, insieme a un gruppo di giovani psichiatri, Basaglia inizia la sua battaglia per restituire diritti e dignità ai pazienti del manicomio: abolisce contenzioni fisiche ed elettroshock e sostiene un nuovo rapporto tra medico e paziente, non più verticale ma orizzontale, basato sull’ascolto e sulla parola, in cui pazienti e operatori hanno pari dignità e pari diritti. Cambia anche la vita quotidiana dell’ospedale, con momenti di festa e aggregazione, gite e laboratori artistici e teatrali. 

Si iniziano ad aprire le porte dei padiglioni e i cancelli della struttura, ma il tentativo di Basaglia di superare l’istituzione manicomiale e portare l’assistenza psichiatrica sul territorio fallisce, a causa della resistenza dell’amministrazione locale.

Nel 1968, i frutti dell’esperienza all’ospedale di Gorizia sono raccolti in un libro, scritto con la collaborazione della moglie Franca Ongaro, che diventa il manifesto del movimento di Basaglia: “L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico”.

Nel 1970, lo psichiatra lascia Gorizia e accetta l’invito a dirigere l’ospedale psichiatrico di Colorno, in provincia di Parma, ma anche qui il processo di trasformazione avviato da Basaglia si scontra con numerose difficoltà, burocratiche e politiche.

Nel 1971, Basaglia vince il concorso per la direzione dell’ospedale psichiatrico di Trieste, dove il presidente della Provincia Michele Zanetti, da cui all’epoca dipendeva il manicomio, gli garantisce piena libertà di azione, appoggiando il suo progetto di superamento del manicomio e di un’organizzazione territoriale della psichiatria. È la cosiddetta “deistituzionalizzazione”.

La rivoluzione di Trieste 

Quando Basaglia arriva a Trieste, la struttura ospita 1.182 persone di cui 840 sottoposte a regime coatto e subito lo psichiatra si mette al lavoro per riorganizzare équipe mediche e reparti e rompere l’isolamento del manicomio, integrandolo con la città. 

L’obiettivo ultimo è chiudere il manicomio e affidare i pazienti a una rete di cura e inclusione sociale e lavorativa sul territorio, mirando a responsabilizzare le persone con disagio psichico e a renderle autonome. Per questo, viene fondata la Cooperativa Lavoratori Uniti, grazie a cui i pazienti dell’ospedale psichiatrico lavorano, occupandosi inizialmente della pulizia e manutenzione dei reparti, del parco, delle cucine, e ottengono una retribuzione equa.

Intanto, nel parco dell’ospedale si organizzano corsi di pittura, scultura, scrittura creativa e teatro. Tra le varie iniziative artistiche, nel 1973 prende forma l’opera collettiva “Marco Cavallo”: un cavallo di cartapesta azzurro, alto 4 metri, così da poter idealmente contenere nella sua pancia i sogni e i desideri dei pazienti.

Marco Cavallo vuole essere un simbolo dell’umanità nascosta nei manicomi, che da questi non-luoghi vuole uscire, per rivendicare libertà, diritti e dignità fino ad allora negati. Marco Cavallo, quindi, sfonda letteralmente il cancello del manicomio e, insieme a un corteo di pazienti e operatori, raggiunge il centro di Trieste. Da allora, Marco Cavallo è un’installazione itinerante per sensibilizzare l’opinione pubblica e il mondo politico sui problemi della salute mentale. In Italia è stato esibito anche all’EXPO di Milano del 2015 e in quell’occasione fa visita anche alla Casa della Carità.

La Legge Basaglia: dai manicomi alla comunità

Nel 1973, Basaglia, insieme ad alcuni collaboratori, fonda il movimento  “Psichiatria Democratica”, convinto che per attuare un vero cambiamento nell’ambito della psichiatria fosse necessario anche un cambiamento politico.

Nel gennaio 1977 si annuncia la chiusura dell’ospedale psichiatrico “San Giovanni” di Trieste e il dibattito sulla chiusura dei manicomi arriva in Parlamento.

Il 13 maggio 1978 è approvata la legge 180, scritta e promossa dal deputato DC e psichiatra Bruno Orsin, soprannominata appunto “Legge Basaglia”, che ridefinisce la concezione di malattia mentale e mette la persona al centro della cura.

La legge mette quindi fine ai manicomi e istituisce servizi di cura territoriale: reparti di psichiatria negli ospedali, centri per la salute mentale e centri diurni, centri di supporto alle famiglie. La riforma, tuttavia, diventa operativa solo a metà degli anni ‘90, quando in Italia vengono effettivamente chiusi gli ultimi ospedali psichiatrici.

L’eredità tradita di Franco Basaglia

Oggi, a quasi 46 anni dall’approvazione della Legge 180, essa rimane ancora in parte incompiuta, quando non è apertamente ostacolata. Da una parte, a livello culturale e politico, nonostante l’eliminazione dalla normativa sanitaria della parola “pericolosità”, lo stigma verso le persone con sofferenza psichica rimane ancora forte e periodicamente, soprattutto quando avvengono casi di cronaca che hanno per protagoniste persone con sofferenza mentale, si fanno più insistenti le voci e le tesi di chi chiede un ritorno a ricoveri in luoghi chiusi. 

Dall’altra parte, da un punto di vista operativo, restano ancora in parte incomplete le misure necessarie a sostituire pienamente gli ospedali psichiatrici e a favorire l’inserimento nella società delle persone con disagio mentale. In particolare, pesano:

  • i ritardi nell’organizzazione dei servizi territoriali per la presa in carico delle persone sofferenti. Di conseguenza, il peso della cura e della gestione di queste persone resta a carico delle loro famiglie
  • la mancanza in molte regioni di risorse, personale e strutture adeguate a fronte di una richiesta d’aiuto crescente
  • l’impoverimento di molti servizi territoriali (la cui apertura quotidiana e h24 non viene garantita), a causa della mancanza o dei tagli alle risorse economiche destinate alla psichiatria
  • il continuo ricorso all’ospedalizzazione e alla contenzione meccanica e farmacologica
  • la mancata formazione degli operatori
  • la trasformazione delle strutture residenziali in luoghi di custodia anziché luoghi di cura
  • la difficoltà, per molti enti del terzo settore che operano nella salute mentale, di trovare ascolto, spazio e sostegno da parte delle istituzioni 

Basaglia e la Casa della Carità

Il legame della Casa della Carità con l’esperienza basagliana arriva da don Virginio Colmegna e dalla sua attività di cura e accoglienza delle prime persone dimesse dagli ospedali psichiatrici, a seguito dell’entrata in vigore della Legge Basaglia negli anni ‘80.

La nascita della comunità di Cascina Parpagliona

Don Colmegna, che negli anni ‘80 è parroco a Sesto San Giovanni, raccoglie l’invito del cardinale Carlo Maria Martini e fonda la comunità di Cascina Parpagliona: «Andammo a conoscere quanto si faceva a Trieste, città pregna dell’eredità di Basaglia, ed entrammo in relazione con luminari come Franco Rotelli e Mario Tommasini» spiega nel libro “I fragili”, che racconta quell’esperienza pionieristica. 

La Parpagliona è una delle prime comunità dove si sperimenta la presa in carico sul territorio di persone con disagio psichico, dove al centro non c’è la patologia, ma la persona nella sua interezza. La patologia non è negata, ma non è un’etichetta: è solo uno degli aspetti della persona, che è anche tanto altro.

L’esperienza della Parpagliona riscontra subito molto interesse da parte della comunità, non soltanto tra chi chiede aiuto per accogliere i propri familiari, ma anche di chi si mette a disposizione per svolgere attività di volontariato. 

I progetti Casa Elena e MigrArte come terapia artistica  

Nasce successivamente Casa Elena, un progetto di terapeutica artistica avviato nel quartiere operaio di Cascina Gatti a Sesto San Giovanni, fortemente segnato dalla presenza di persone con problemi di salute mentale ed esclusione sociale. L’obiettivo è intercettare quelle persone che non riescono a rivolgersi autonomamente ai servizi di cura o che non sono pienamente consapevoli della loro sofferenza psichica.

Nell’ottica basagliana, si sceglie di realizzare questo progetto non in un luogo istituzionalmente predisposto alla cura, ma in un appartamento, privilegiando la dimensione dell’abitare quotidiano in chiave terapeutica.

Col tempo, questa esperienza si consolida e da Sesto San Giovanni si trasferisce in Casa della Carità, diventando parte integrante dei progetti della Fondazione. Oggi Casa Elena si è evoluta in “Progetto MigrArte”, che propone laboratori di pittura, grafica e di sartoria, terapeutica artistica, corsi di teatro e scrittura creativa a persone con fragilità psichica e non solo.

Proviamociassieme per l’autonomia abitativa

Fin dagli esordi della Casa della Carità è poi attivo “Proviamociassieme” un intervento di sostegno all’abitare autonomo di cittadini con disagio psichico, realizzato nel quartiere Molise-Calvairate di Milano, con l’obiettivo di costruire e consolidare reti e relazioni tra le persone sofferenti e il territorio in cui vivono.

Si è cominciato entrando nelle loro case, per migliorare la qualità del loro ambiente di vita: tinteggiare pareti, riparare rubinetti che gocciolano, aggiustare una tapparella sono diventati occasione per creare una relazione con coloro che faticavano a recarsi ai servizi di cura.

E poi insieme alle persone, partendo dalle loro esigenze, si è costruito un intervento sociale che utilizza la creatività nel processo di cura. Oggi Proviamociassieme è un centro diurno dove quotidianamente le persone si ritrovano per socializzare, ma anche per realizzare in prima persona momenti artistici (negli anni hanno realizzato diversi cortometraggi e un lungometraggio e hanno dato vita alla compagnia di danza “I Baldanzosi”), diventando protagonisti del loro percorso di cura.

Il progetto di accoglienza della Casa per uomini e donne migranti con fragilità psichiche

L’arrivo negli ultimi anni di centinaia di migliaia di migranti ha reso necessario considerare nelle dinamiche dell’accoglienza anche la cura della loro salute mentale, in molti casi fortemente segnata da esperienze terribili nei paesi d’origine e dalla drammaticità dei viaggi nel deserto e nel mare per raggiungere l’Italia.

Per questo, la Casa è stata tra i primi enti milanesi a sviluppare, fin dal 2014, un progetto di accoglienza specifico per uomini e donne migranti con fragilità psichica all’interno del Sistema di Accoglienza e Integrazione – SAI, diventando un punto di riferimento anche per altre realtà.

Per rimanere nel quartiere in cui ha sede la Casa, dal 2014 a Crescenzago è attiva una collaborazione tra la Fondazione e il Dipartimento di Salute Mentale dell’Ospedale Maggiore Policlinico, sostenuta dal Comune di Milano, per garantire una migliore risposta ai bisogni di salute mentale delle persone che vivono in condizioni di grave marginalità.

L’obiettivo è migliorare la qualità della vita di queste persone, rendendole il più possibile autonome nella cura della loro salute e valorizzando il territorio come luogo di cura, attraverso progetti di domiciliarità, coinvolgimento in attività di socializzazione, laboratori di musicoterapia e gruppi di terapeutica artistica.

Progetto Diogene per la cura delle salute mentale per i senza fissa dimora

Nell’ambito dei suoi progetti dedicati alla salute mentale, la Casa della Carità, da 20 anni, realizza un intervento di presa in carico dedicato a persone senza dimora che hanno un disagio psichico e patologie psichiatriche conclamate. È il Progetto Diogene, realizzato in collaborazione con ASST Grande Ospedale Metropolitano Niguarda, Novo Millennio Società Cooperativa Sociale ONLUS, Caritas Ambrosiana e finanziato dalla Regione Lombardia.

Nel corso di uscite serali, l’Unità di Strada di Diogene composta da professionisti (psichiatra, educatori e psicologo) incontra le persone senza dimora là dove vivono.

Inizialmente viene fatta una valutazione clinica del disagio della persona, in base alla sintomatologia che presenta e contemporaneamente, piano piano, si cerca di attivare una relazione che porti la persona ad acquisire consapevolezza del proprio disagio e del bisogno di aiuto. Quando possibile, vengono attivati anche accoglienza e ricoveri mirati.

L’impegno sociale e culturale della Casa per la salute mentale

«Per me, che per 11 anni mi sono occupato dei primi dimessi dall’ospedale psichiatrico, vivendoci insieme in comunità, è stato naturale aprire la Casa della Carità, fin dai suoi inizi, alla cura delle persone più fragili, seguendo la strada indicata da Basaglia: quella della deistituzionalizzazione, che significa far sì che la comunità non deleghi la sofferenza di un suo membro ad altri, ma se ne faccia carico, attivando le risorse della persona, le sue relazioni affettive e parentali, ma anche le energie della comunità stessa. La deistituzionalizzazione per noi è sempre stato il tracciato da seguire per realizzare tutte le nostre attività, non solo quelle che riguardano la salute mentale», afferma don Colmegna, presidente onorario della Fondazione, a proposito del rapporto della Casa con Basaglia.

Un impegno, quello della Casa per la salute mentale, che non è solo sociale. La Fondazione è infatti impegnata anche sul piano culturale e politico, nella difesa dai tentativi di ridimensionamento della Legge Basaglia e affinché sia effettivamente messa in pratica nella sua interezza, ma anche come stimolo alle istituzioni, soprattutto a livello locale, per la promozione di politiche adeguate per la tutela della salute mentale, per esempio attraverso la Campagna per la Salute Mentale.

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