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Chi sono i Rom, oltre i pregiudizi e gli stereotipi

Scopri chi sono i Rom con la Casa della Carità: dalla storia millenaria alla lotta contro la discriminazione in un viaggio autentico.

La parola “Rom” in lingua romanes significa “uomo” e definisce un popolo che comprende, secondo le stime, dai 10 ai 12 milioni di persone in Europa, di cui circa 170 mila in Italia, lo 0,23% della popolazione, una delle più basse percentuali europee. 

Di Rom, purtroppo, si parla spesso in negativo. Persino nel definirli si usa ancora un termine dispregiativo come “zingari”. Per non parlare dei pregiudizi duri a morire come quello che li descrive tutti come nomadi, dediti a elemosina e borseggi e ladri di bambini.

Cerchiamo qui di seguito di fare un po’ di chiarezza, per provare a conoscere meglio le popolazioni Rom e smontare alcuni stereotipi che le riguardano.

Chi sono e da dove vengono i Rom

Sull’origine delle popolazioni Rom si sa molto poco a causa dell’assenza di una trasmissione scritta della loro storia e cultura. Molti studiosi concordano comunque che provengano dal nord ovest dell’India e diverse ricostruzioni datano il loro arrivo in Europa tra il XIV ed il XV secolo.

In Italia i primi Rom sarebbero arrivati alla fine del 1300, in fuga dal Kosovo in seguito alla vittoria delle armate ottomane su quelle serbo-cristiane. Ciò sarebbe confermato da un documento del 1390, che registra l’arrivo di un gruppo nomade a Penne d’Abruzzo. Questo sarebbe il primo nucleo di Rom in Italia, oggi chiamati Rom abruzzesi.

Rom e Sinti in Italia

Come dicevamo, in Italia la popolazione Rom e Sinti (altra etnia appartenente alla più ampia famiglia delle comunità romaní dell’Europa) è stimata intorno alle 170.000 persone: circa il 50% di loro sono cittadini italiani e il 60% ha meno di 18 anni. Le regioni dove la presenza Rom è più significativa sono il Lazio, la Campania, la Lombardia e la Calabria.

Per quanto riguarda i Rom italiani, la loro presenza si concentra soprattutto nel centro e sud Italia e sono divisi in diversi sottogruppi:

  • Rom abruzzesi e molisani, giunti in Italia dal Kosovo alla fine del 1300
  • Rom harvati, giunti dalla Jugoslavia settentrionale dopo la prima guerra mondiale
  • Rom lovai, di origine ungherese 
  • Rom rudari, di origine romena
  • Rom napoletani (napulengre)
  • Rom cilentani
  • Rom lucani
  • Rom pugliesi
  • Rom calabresi

In seguito al crollo dei regimi comunisti nei Paesi dell’Est Europa, dalla metà degli anni ‘80 iniziarono ad arrivare in Italia, soprattutto nelle città del nord ma anche a Napoli, Bologna, Pescara e Bari, gruppi Rom provenienti da Bulgaria e Romania. In questi Paesi i Rom vennero forzatamente assimilati dai regimi comunisti, finendo però esclusi dal mondo del lavoro o venendo relegati ai mestieri più umili. La loro lingua venne vietata, la loro libertà limitata e le proprietà private confiscate. Un aumento degli arrivi dei Rom romeni in Italia si è registrato nei primi anni 2000, a seguito dell’abolizione dei regime dei visti per i cittadini romeni per viaggiare in Europa.

Con l’aggravarsi della guerra degli anni ‘90 nella ex Jugoslavia, da queste zone sono iniziati ad arrivare, principalmente nel nord Italia, diversi gruppi di Rom balcanici. Il gruppo principale è quello dei “Khorakhanè” (parola che significa “lettori del Corano”) di religione musulmana e proveniente appunto da Kosovo e Bosnia.

L’altro gruppo etnico di origine romanì presente in Italia e con cittadinanza italiana è quello dei Sinti, presenti principalmente nel centro-nord.

Italia, il Paese dei campi 

Uno dei primi luoghi comuni da sfatare sui Rom è il loro nomadismo, che oggi è praticato solo da una ristretta minoranza. 

Per secoli, per i Rom lo spostamento è stato la soluzione alle persecuzioni subite nel corso dei secoli in ogni Paese in cui si stabilivano. Dall’altro lato, i mestieri tradizionali dei Rom li portavano a muoversi. I Rom erano infatti calderai (cioè artigiani che producono caldaie, pentole e altri recipienti di rame), allevatori e commercianti di cavalli, musicisti, circensi e giostrai.

Con la scomparsa di molti di questi lavori, a partire dagli anni ‘70 la stragrande maggioranza di loro è diventata stanziale e vive in abitazioni convenzionali. Oggi, infatti, solo il 2-3% di Rom e Sinti pratica il nomadismo e si tratta soprattutto di famiglie di giostrai.

Circa il 7% vive invece da decenni, in condizioni di grave segregazione ed esclusione, nei cosiddetti “campi nomadi”: insediamenti istituzionali concepiti dalle Regioni o dai Comuni su base etnica a partire dalla metà degli anni ‘80, come risposta al crescente arrivo di cittadini Rom in fuga dalla crisi balcanica e dai Paesi ex sovietici.

Il sistema dei campi in Italia nasce e si consolida a causa dell’equivoco secondo cui Rom e Sinti sarebbero ancora popolazioni nomadi, ostili alla vita sedentaria e pertanto portatrici di bisogni abitativi specifici e differenziati.

L’isolamento delle persone Rom e Sinti in insediamenti mono etnici è un unicum nel panorama internazionale, tanto che nel 2000 lo European Roma Rights Centre definì l’Italia “Campland – il Paese dei campi”.

Le condizioni di vita di Rom e Sinti che risiedono in campi segregati sono un fattore che incide enormemente sulla possibilità di accesso all’occupazione, all’istruzione e all’assistenza sanitaria, dal momento che questi insediamenti si trovano quasi sempre in aree lontane dai centri abitati, quindi lontane dai servizi di base, dove i collegamenti con il trasporto pubblico sono spesso deficitari se non assenti. A questo si collega un’oggettiva difficoltà nell’instaurare relazioni sociali al di fuori del proprio insediamento. Inoltre i “campi nomadi” sono invariabilmente associati a processi di stigmatizzazione e criminalizzazione, in cui il degrado fisico dell’abitato diviene immagine di un presunto degrado morale dei suoi abitanti. Tutto questo genera paura e alimenta risposte securitarie e ulteriormente segreganti, in un circolo vizioso difficile da rompere.1

Pregiudizi e antiziganismo (o antigitanismo)

Quella Rom è una minoranza etnica e linguistica che ancora non è riconosciuta in Italia. La legge n. 482 del 1999 recante “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche-storiche” riconosce infatti dodici minoranze – albanese, catalana, germanica, greca, slovena, croata, francese, franco-provenzale, friulana, ladina, occitana e sarda – tranne quella di Rom e Sinti.

Questo significa che non esistono strumenti giuridici che tutelano Rom e Sinti e che non c’è un investimento nella promozione della loro cultura e della loro lingua, alimentando per contro stereotipi, discriminazioni e discorsi d’odio nei confronti di questa popolazione.

Secondo la relazione finale della Commissione “Jo Cox” sull’intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio, istituita presso la Camera dei Deputati nella XVII legislatura, infatti, “l’antigitanismo è un tratto radicato nella società italiana” aumentato di intensità nell’ultimo decennio.

I discorsi d’odio nei confronti di Rom e Sinti sono largamente diffusi all’interno della popolazione italiana, anche tra i rappresentanti politici, e, secondo le analisi dell’Associazione Carta di Roma (nata per attuare il protocollo deontologico per un’informazione giornalistica corretta sui temi dell’immigrazione e delle minoranze) “ad alimentare i pregiudizi nei confronti di Rom e Sinti contribuisce anche la rappresentazione mediatica che ne viene fatta nel nostro paese, che in alcune occasioni ha contribuito a creare un clima di allarme sociale, attraverso la divulgazione di notizie che vedono l’accostamento generalizzato e senza distinzione di Rom e Sinti a determinati fenomeni criminali”.

Tutto ciò agisce come ostacolo alla loro inclusione sociale. Come rileva infatti la prima edizione del Rapporto di monitoraggio della società civile sull’implementazione della Strategia nazionale di inclusione di Rom, Sinti e Camminanti, i discorsi d’odio, oltre ad avere un impatto diretto in termini di discriminazione, agiscono come deterrente per la realizzazione di politiche di inclusione, da parte soprattutto delle amministrazioni locali, e permettono che la retorica razzista nei confronti di questa minoranza venga gradualmente accettata dall’opinione pubblica, spianando la strada a episodi di violenza.

L’antiziganismo comprende anche diverse forme di discriminazione istituzionale, come per esempio il censimento con la raccolta obbligatoria delle impronte digitali, realizzato in Italia nel 2008 con il varo del cosiddetto “Decreto emergenza nomadi”.

Porrajmos, la persecuzione dei Rom durante la seconda guerra mondiale

Quella del genocidio di Rom e Sinti durante il nazifascismo è una storia rimossa. Eppure negli anni della seconda guerra mondiale furono uccisi circa 500 mila Rom e Sinti, tra cui si contano circa 25mila vittime italiane.

Porrajmos”, grande divoramento, o “Samudaripen”, tutti morti, sono le parole che in lingua romanes indicano lo sterminio di queste popolazioni, che non avvennero solo nei campi di concentramento nazisti in Germania e Polonia.

Anche in Italia, nei primi anni ‘40, il regime fascista aveva organizzato dei campi di concentramento – a Boiano  (Campobasso),  Agnone  (Isernia),  Tossicia  (Teramo),  Prignano  sulla  Secchia  (Modena),  Berra  (Ferrara),  Castello  Tesino  (Trento) – dove internare solo “zingari”. In altri campi – a  Ferramonti  di  Tarsia (Cosenza), Isole  Tremiti  (Foggia),  Vinchiaturo  (Campobasso),  Casacalenda  (Campobasso) e  Isernia – Rom e Sinti erano rinchiusi insieme ad altri prigionieri, soprattutto oppositori politici.

Accanto a queste realtà già censite, se ne aggiungono altre decine la cui esistenza è testimoniata dai prigionieri, ma su cui occorre proseguire le verifiche negli archivi. Pochi conoscono questa realtà, perché quella del Porrajmos nel nostro Paese è appunto una vicenda dimenticata, tanto da non essere nemmeno menzionata nella legge che ha istituito il Giorno della Memoria il 27 gennaio.

La Casa della Carità è impegnata accanto alle comunità Rom e Sinti di tutta Italia, affinché il Porrajmos possa essere finalmente riconosciuto a livello istituzionale e venga incluso nei libri di testo con riferimento ai campi di concentramento italiani, per ridare dignità alle vittime e ai loro familiari e per costruire un presente e un futuro di piena cittadinanza per queste popolazioni.

Le politiche di inclusione europea2

I Rom costituiscono la minoranza etnica più numerosa in Europa. Dei 10-12 milioni che vivono nel continente, circa 6 milioni sono cittadini o residenti dell’UE, ma numerose persone Rom sono ancora vittime di pregiudizi ed esclusione sociale.

Nel 2020 la Commissione Europea ha pubblicato un quadro strategico decennale per l’inclusione socio-economica dei Rom che vivono in condizioni di marginalità, che definisce un approccio globale fondato su tre pilastri: uguaglianza, inclusione, partecipazione.

Questo quadro strategico inoltre pone maggiormente l’accento sulla diversità locali tra i Rom (termine che comprende diversi gruppi, tra cui Rom, Sinti, Kalé, Romanichels, Boyash/Rudari, Ashkali, Egiziani, Yenish, Dom, Lom e Abdal, nonché popolazioni nomadi come Gens du Voyage, Travellers, Camminanti, ecc) e incoraggia un approccio intersettoriale, al fine di garantire che le strategie nazionali rispondano alle esigenze specifiche di diversi gruppi: donne, giovani, bambini, cittadini mobili, apolidi, persone LGBTI, anziani e persone con disabilità. 

A partire dal 2023 gli Stati membri dovranno riferire con cadenza biennale sull’attuazione delle strategie nazionali, che dovranno concentrarsi sull’attuazione degli impegni stabiliti nei quadri nazionali, nonché, ove opportuno, sul conseguimento degli obiettivi nazionali. Tali relazioni dovrebbero essere rese pubbliche per aumentare la trasparenza e promuovere l’apprendimento delle politiche adottate.

“Romano dives”: la Giornata internazionale del popolo Rom

L’8 aprile si celebra in tutto il mondo il “Romano Dives”, la Giornata Internazionale del popolo Rom, in ricordo del primo congresso mondiale del popolo Rom, svoltosi nel 1971 a Londra.

In quell’occasione si scelse la parola “Rom”, che significa ‘Uomo’, per indicare la nazione romanì e si adottò la canzone “Djelem Djelem” (“Cammina, cammina”), composta nel 1969 da Zarko Jovanovic, come inno di questo popolo.

Da quel congresso nacquero la Romani Union, la prima organizzazione mondiale dei Rom poi  riconosciuta dall’ONU nel 1979, e la bandiera romanì: una ruota indiana di colore rosso su sfondo per metà verde, a simboleggiare la terra coperta d’erba, per metà azzurra, a simboleggiare gli spazi del cielo.

Cosa fa la Casa della Carità?

La Casa della Carità è stata la prima organizzazione a Milano a recarsi nei campi informali sorti nelle periferie della città, abitati da famiglie Rom, provenienti principalmente da Romania e Bulgaria.

Con queste famiglie, la Casa della Carità ha costruito una relazione costante e ha dato vita a reti, per:

  • fornire assistenza sociale e legale
  • migliorare le condizioni di salute delle persone
  • promuovere l’inserimento scolastico di bambini e ragazzi
  • realizzare percorsi di formazione e inserimento lavorativo
  • rafforzare il ruolo delle donne

mirando al raggiungimento di autonomia abitativa e inclusione sociale.

Nel 2005, a seguito di numerosi sgomberi di insediamenti informali, la Fondazione ha lanciato il progetto pilota per l’inserimento abitativo “Villaggio solidale“, realizzato in collaborazione con il CeAS – Centro Ambrosiano di Solidarietà, diventato negli anni un programma strutturale della Casa della Carità per l’accoglienza di famiglie in emergenza abitativa e considerato una buona prassi da replicare anche in altri contesti. Molti dei suoi principi sono stati inclusi nelle linee guida per l’inclusione dei Rom, approvate per la prima volta dal Comune di Milano nel 2012.

Oggi, l’80% delle famiglie seguite vive in appartamento: il 57% in affitto, mentre il 9% in una casa di proprietà. 163 bambini e ragazzi hanno iniziato un percorso scolastico: 45 hanno già raggiunto la licenza media e 28 sono arrivati al diploma superiore o hanno una qualifica professionale. Un ragazzo sta frequentando l’università. Con gli adulti, sono stati realizzati 137 percorsi di inserimento lavorativo.

La Casa della Carità ha operato, gestendo dei presidi sociali, in diversi campi regolari del Comune di Milano e quando poi il Comune ha deciso di chiudere questi insediamenti (via Triboniano nel 2011 e via Idro nel 2016), la Fondazione ne ha seguito il superamento, costruendo insieme alle famiglie l’uscita dal campo attraverso percorsi di autonomia abitativa.

Le storie che abbiamo condiviso in questi anni, ci hanno insegnato che è possibile promuovere l’inclusione e la piena cittadinanza di Rom e Sinti, se si garantisce loro l’accesso ai diritti fondamentali quali casa, lavoro, educazione e formazione professionale.

Per questo, accanto al quotidiano lavoro sociale con i Rom, la Casa è impegnata in attività di advocacy, campagne e progetti a livello locale, nazionale ed europeo.

L’obiettivo è fare proposte concrete che cambino in meglio la vita dei cittadini Rom e Sinti che vivono in condizioni di esclusione e creino coesione sociale. Per tutti.

Scopri di più

  • Scopri di più sull’impegno della Casa accanto alle famiglie Rom. Clicca qui.
  • Leggi il documento The housing exclusion of Roma Families in Italy, scritto da Donatella De Vito, responsabile del Settore disuguaglianze e nuove povertà della Casa per FEANTSA, la Federazione europea delle organizzazioni nazionali che lavorano con le persone senza dimora. Clicca qui.


  1. Fonte: Roma Civil Monitor. Rapporto di monitoraggio della società civile sull’implementazione della Strategia nazionale di inclusione Rom, Sinti e Caminanti in Italia, realizzato dalla Casa della Carità con Consorzio Nova, Fondazione Romanì, Associazione 21 Luglio, Arci Solidarietà Onlus e Associazione Sinti Italiani Prato ↩︎
  2. Fonte: https://commission.europa.eu/strategy-and-policy/policies/justice-and-fundamental-rights/combatting-discrimination/roma-eu/roma-equality-inclusion-and-participation-eu_it ↩︎

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