Approfondimenti

“Campi nomadi”: che cosa sono e perché superarli

Fin dalla sua nascita la casa della carità ha lavorato con persone Rom in insediamenti regolari o irregolari. Oggi segue queste persone nelle loro case. Perché superare i “campi nomadi” è possibile e necessario. Leggi l’approfondimento.

Nel 2000 in un suo rapporto, l’ERRC – European Roma Rights Centre (Centro Europeo per i Diritti dei Rom) definì l’Italia “Campland – Il Paese dei campi”, per indicare la politica abitativa portata avanti nel nostro Paese che ha visto relegare molti cittadini Rom e Sinti in insediamenti monoetnici, definiti appunto “campi rom” o “campi nomadi”.

Ma che cosa sono e come si vive nei “campi nomadi”? Perché sono nati e perché è importante superarli? 

Ne parliamo in questo approfondimento.

Che cosa sono i “campi nomadi” e quando sono nati? 

In Italia la popolazione Rom e Sinti è stimata intorno alle 170.000 persone. Originari del nord ovest dell’India, la loro presenza nel nostro Paese risale alla fine del 1300, tanto che oggi circa il 50% dei Rom presenti sul nostro territorio sono cittadini italiani.

A partire dagli anni ‘80 e poi in misura maggiore dagli anni ‘90, iniziarono ad arrivare in Italia migliaia di persone Rom provenienti dall’est Europa e dai Balcani.

È in questi anni che, per rispondere a tali massicci arrivi e basandosi sulla cosiddetta “teoria nomade” – un’idea sbagliata e fuorviante che vede Rom e Sinti come popolazioni per scelta e “culturalmente” nomadi, incapaci di vivere in abitazioni convenzionali – le amministrazioni locali italiane iniziano la costruzione di insediamenti dedicati ai Rom, conosciuti da tutti come “campi nomadi”, con l’obiettivo dichiarato di “salvaguardarne il patrimonio e l’identità culturale”.

Quello che Rom e Sinti siano nomadi è però uno stereotipo da demolire: per secoli lo spostamento è stato per i Rom la soluzione alle persecuzioni subite nel corso dei secoli in ogni Paese in cui si stabilivano e una necessità dovuta ai loro mestieri tradizionali – calderai (cioè artigiani che producono caldaie, pentole e altri recipienti di rame), allevatori e commercianti di cavalli, musicisti, circensi e giostrai – che li portavano a muoversi. 

Con la scomparsa di molti di questi lavori, a partire dagli anni ‘70 la stragrande maggioranza di loro è tuttavia diventata stanziale e vive in abitazioni convenzionali. Oggi, infatti, solo il 2-3% di Rom e Sinti pratica il nomadismo e si tratta soprattutto di famiglie di giostrai.

Le conseguenze della politica dei campi 

L’isolamento delle persone Rom e Sinti in insediamenti monoetnici è un unicum nel panorama internazionale, che ha generato segregazione abitativa ed emarginazione sociale1, con gravi conseguenze per le condizioni di vita di queste persone, come:

  • difficoltà di accesso all’occupazione, all’istruzione e all’assistenza sanitaria, dal momento che questi insediamenti si trovano quasi sempre in aree lontane dai centri abitati, quindi lontane dai servizi di base, dove i collegamenti con il trasporto pubblico sono spesso deficitari se non assenti
  • un oggettivo ostacolo nell’instaurare relazioni sociali al di fuori del proprio insediamento
  • processi di stigmatizzazione e criminalizzazione, in cui il degrado fisico dei campi diviene specchio del presunto degrado morale di chi ci abita 

Tutto questo genera paura e alimenta risposte securitarie e ulteriormente segreganti, in un circolo vizioso difficile da rompere. Ancora oggi infatti, anche se la maggior parte delle comunità Rom e Sinti non conduce uno stile di vita nomade, questi campi continuano a esistere.

Le sfide principali che i Rom affrontano ogni giorno nei campi

I campi, siano essi formali o informali, sorgono nella maggior parte dei casi nelle estreme periferie delle grandi città: zone a elevato tasso di inquinamento ambientale e acustico, spesso nei pressi di discariche e ad alto rischio idrogeologico.

Gli alloggi sono spesso pericolanti, sovraffolati e malsani e negli insediamenti mancano in molti casi l’accesso all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari, la raccolta comunale dei rifiuti, un accesso sicuro a elettricità e riscaldamento.

Queste condizioni di vita, la segregazione abitativa e l’emarginazione sociale, come detto, incidono pesantemente sulla salute psicofisica dei Rom, specialmente dei bambini.

Perché è importante superare i campi nomadi? 

Superare i campi nomadi è possibile e soprattutto è necessario al fine di combattere l’isolamento e la segregazione etnica di Rom e Sinti, favorendo l’accesso a un ampio ventaglio di soluzioni abitative.

In questo senso, l’Italia ha ricevuto dall’Unione Europea e da vari organisimi di difesa dei diritti umani diverse raccomandazioni per attivare politiche per il superamento della discriminazione dei Rom non solo in ambito abitativo, ma anche per quel che riguarda l’istruzione e il lavoro.

In particolare, nell’aprile 2011 la Commissione Europea, con la comunicazione n.173, sollecitava gli Stati membri a elaborare strategie nazionali di inclusione delle popolazioni romanì.

La situazione in Italia e le politiche attive

Con l’obiettivo di promuovere una concreta inclusione di Rom, Sinti e Caminanti, il 24 febbraio 2012 l’Italia ha presentato la sua prima Strategia Nazionale valida per quasi un decennio (2012-2020)2, un traguardo importante e un riferimento eccellente per intervenire su questioni come l’anti-discriminazione, l’inclusione sociale e abitativa, l’istruzione e la salute. 

Ciononostante, anche se la stragrande maggioranza di Rom e Sinti in Italia vive in abitazioni convenzionali, ci sono ancora 13.3003 persone che vivono in condizioni di grave segregazione ed esclusione in spazi istituzionali concepiti su base etnica – campi, centri di raccolta, aree residenziali monoetniche; altre 2.500 persone circa vivrebbero in insediamenti informali.

Nel 2021, in attuazione della Raccomandazione del Consiglio dell’Unione Europea del 12 marzo 2021 (2021/C 93/01), il nostro Paese ha adottato la Strategia Nazionale di uguaglianza, inclusione e partecipazione di Rom e Sinti4 per il periodo 2021-2030, basata su sei assi tematici: 

  • Antiziganismo 
  • Istruzione
  • Occupazione
  • Abitazione
  • Salute
  • Promozione culturale

L’impegno della Casa della Carità 

La Casa della Carità è stata la prima organizzazione a Milano a recarsi nei campi informali sorti nelle periferie della città, abitati da famiglie Rom, provenienti principalmente da Romania e Bulgaria.

Con queste famiglie, la Casa della Carità ha costruito una relazione costante e ha dato vita a reti, per:

  • fornire assistenza sociale e legale
  • migliorare le condizioni di salute delle persone
  • promuovere l’inserimento scolastico di bambini e ragazzi
  • realizzare percorsi di formazione e inserimento lavorativo
  • rafforzare il ruolo delle donne
  • mirando al raggiungimento di autonomia abitativa e inclusione sociale

Nel 2005, a seguito di numerosi sgomberi di insediamenti informali, la Fondazione ha lanciato il progetto pilota per l’inserimento abitativo “Villaggio solidale“, realizzato in collaborazione con il CeAS – Centro Ambrosiano di Solidarietà, considerato una buona prassi da replicare anche in altri contesti, e oggi diventato un programma strutturale della Casa della Carità per l’accoglienza di famiglie in emergenza abitativa.

Il superamento del campo di via Triboniano

Da un lato il cimitero Maggiore, dall’altro la ferrovia che porta a Torino. In questa striscia di terra all’estrema periferia nord ovest di Milano sorgeva il campo Rom di via Triboniano, allora l’insediamento più grande della città con quasi 1.000 abitanti.

Nel maggio 2011 il campo veniva chiuso e gli abitanti avviati a percorsi di autonomia, inclusione sociale e cittadinanza e anche la Casa della Carità è stata protagonista di questa storia: dal 2007 al 2011, infatti, la Fondazione ha gestito lì un presidio sociale. Successivamente, gli operatori della Casa hanno seguito l’accompagnamento dei residenti nei percorsi di uscita dal campo.

Lavorando al Triboniano è infatti cresciuta la consapevolezza che i campi vanno superati. Anche se riconosciuti e regolarizzati, infatti, possono continuare ad attirare disagio e a volte a moltiplicare illegalità.

Si è scelta la strada di promuovere opportunità per lasciare il campo. Per chiuderlo certo, ma non con gli sgomberi, invocati come scelta che dava più consensi immediati, ma immaginando un percorso di uscita per le famiglie.

Il valore sociale e culturale di questo lavoro è che, da accampati in una favela, queste persone e queste famiglie sono diventate abitanti di un contesto sociale. Cittadini a pieno titolo.

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  1. Roma Civil Monitor ↩︎
  2. www.unar.it/portale/web/guest/strategia-rsc ↩︎
  3. www.ilpaesedeicampi.it ↩︎
  4. www.unar.it/portale/-/strategia-nazionale-di-uguaglianza-inclusione-e-partecipazione-di-rom-e-sinti-2021-2030 ↩︎

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