A partire dalla docu-serie “SanPa: luci e tenebre di San Patrignano”, una riflessione dei nostri partner del CeAS – Centro Ambrosiano di Solidarietà, da 35 anni accanto alle persone con dipendenze e alle loro famiglie.
A partire dalla docu-serie “SanPa: luci e tenebre di San Patrignano”, recentemente uscita su Netflix, abbiamo chiesto una riflessione ai nostri partner del CeAS – Centro Ambrosiano di Solidarietà, da 35 anni accanto alle persone con dipendenze e alle loro famiglie.
Vi proponiamo dunque un dialogo con Claudia Polli, responsabile dell’Area Dipendenze, e Graziano Valera, coordinatore della comunità Alisei, che esordiscono.
Non ci interessa entrare nello scontro tra chi è a favore e chi è contro San Patrignano e il suo metodo. Ci preme sottolineare un importante merito di questa serie: aver riaperto la discussione sulle dipendenze. Una discussione che in Italia si riaccende sui media solo quando ci sono casi di cronaca nera o emergenze, come quella del “bosco di Rogoredo.
Un dibattito, inoltre, che si caratterizza sempre e solo come scontro ideologico tra liberalizzazione e punizione. Il tema, al contrario, è molto complesso e in continua evoluzione, come sottolinea in un recente intervento anche Riccardo De Facci, presidente del CNCA – Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza, di cui il CeAS fa parte.
Dal punto di vista politico, invece, il dibattito è fermo al 1990, anno del Testo Unico 309/90 sulle dipendenze.
«Le dipendenze dovrebbero rientrare nel discorso più generale in atto sul tema della salute, per un grande progetto di riforma. Anche in questo caso, deve prevalere una cultura della deistituzionalizzazione e un approccio che metta al centro la persona, con le sue caratteristiche», dice in proposito don Virginio Colmegna, presidente della Casa della Carità e consigliere del CeAS.
Esperienze pionieristiche
Nel periodo preso in considerazione dal documentario, non ci fu solo San Patrignano. Furono infatti centinaia le comunità di recupero che nacquero in maniera spontanea, per provare a rispondere alla diffusione dell’eroina tra i giovani, che stava provocando migliaia di vittime. Tra queste, ci fu anche il Centro Ambrosiano di Solidarietà, nato nel 1986 per volere del cardinale Carlo Maria Martini. Il modello era il “Progetto Uomo” del CeIS – Centro Italiano di Solidarietà, fondato negli anni ’70 da don Mario Picchi.
Da quelle esperienze “pionieristiche” presero corpo le comunità odierne, ognuna delle quali si è poi evoluta in modo differente.
I limiti di un modello
«Anche la nostra fu un’esperienza pionieristica, perché si doveva affrontare un fenomeno nuovo, di fronte al quale non si avevano strumenti. Al CeAS, per esempio, il programma era inizialmente molto strutturato nei tempi e nelle fasi. Col tempo, però, ci si è resi conto che così si rischiava di rendere la persona oggetto, più che soggetto di cura, con una disattenzione alle caratteristiche individuali di ognuno», spiega Claudia Polli, responsabile dell’Area Dipendenze del Centro Ambrosiano di Solidarietà.
«L’incontro con altre esperienze, nazionali e locali, ha fatto quindi venire a galla i limiti del nostro modello di riferimento, dando, timidamente, il via a sperimentazioni sul campo. Nel corso degli anni, inoltre, è sembrata emergere una nuova utenza portatrice di disturbi psichiatrici e/o psicopatologici correlati all’uso di sostanze, che faticava a trovare accoglienza in altre strutture. Per questo, il CeAS fu tra i primi in Italia a specializzarsi sulla “doppia diagnosi”», dice ancora Claudia.
L’impronta di Martini
«Fino ai primi anni ’90 anche il CeAS era caratterizzato, come tante comunità allora, da una struttura verticale, in cui da utente, col tempo, diventavi tu stesso educatore. E da numeri piuttosto elevati, con un’accoglienza che raggiungeva le 70 persone. Nell’evoluzione della nostra Comunità sentiamo vivo il messaggio lasciato dal Cardinal Martini, che indicava nel dialogo tra le parti in conflitto la via della speranza. Il CeAS si è allora strutturato come comunità orizzontale, democratica, dove non è centrale la figura di un leader carismatico, ma dove è il gruppo a essere importante, in una dinamica di autenticità, reciprocità e circolarità», aggiunge Graziano Valera, coordinatore della Comunità Alisei del Centro Ambrosiano di Solidarietà.
Oltre SanPa, l’esperienza del CeAS
Il CeAS ha scelto di lavorare su numeri piccoli, per favorire la personalizzazione dell’intervento e un rapporto autentico tra operatori e ospiti. Oggi Alisei accoglie 10 uomini, seguiti da un’équipe mulidisciplinare composta da diverse figure: ci sono educatori professionali, un medico psichiatra, uno psicologo psicoterapeuta, un infermiere professionale, un’arteterapeuta. L’équipe, in un rapporto quasi di uno a uno, segue 24 ore su 24, 365 giorni all’anno gli ospiti della comunità, che dal 2004 è accreditata come struttura specialistica per la doppia diagnosi.
«Nel nostro operato apprezziamo la parola “irriverenza” così come l’ha intesa Gianfranco Cecchin, fondatore della Scuola Milanese di terapia sistemica, che consiste principalmente nel “non credere fermamente ad un modello o alle regole che sono imposte dalle istituzioni e dagli ambiti in cui s’opera, ma nell’avere la capacità di allontanarsi quando è necessario. Questo non significa essere privi di regole e punti di riferimento, ma significa avere la consapevolezza che le regole sono relative, convenzionali e provvisorie”», racconta ancora Claudia Polli.
L’importanza della rete
«Quella che proponiamo al CeAS non è un’esperienza salvifica. È piuttosto un’esperienza trasformativa, in cui la persona riconosce le parti in conflitto dentro di sé e diventa protagonista del suo percorso di cura. C’è un cambio di paradigma rispetto a quanto avveniva nella fase “pionieristica”. Oggi è come se l’operatore dicesse all’ospite: io ti sono accanto, ti accompagno, ma non mi sostituisco alla tua volontà”», spiega Graziano Valera.
Il CeAS, inoltre, propone interventi di housing finalizzati al reinserimento sociolavorativo e presta particolare attenzione alle famiglie degli ospiti. «Nonostante non sia previsto dall’accreditamento regionale, per una scelta profondamente etica, abbiamo deciso di attribuire grande importanza al coinvolgimento dei familiari dei nostri ospiti. Proponiamo loro percorsi di counselling e affiancamento, con una rilettura delle dinamiche familiari e introducendo punti di vista nuovi», specifica la responsabile dell’Area Dipendenze.
Da subito, il Centro Ambrosiano di Solidarietà ha poi capito che la comunità è solo un pezzo dell’intervento, e ha quindi sviluppato un intenso lavoro di rete, che si declina in una forte sinergia con i servizi territoriali e con la partecipazione al Coordinamento Cittadino del Privato sociale delle Dipendenze, al CEAL (Coordinamento Enti Ausiliari Regione Lombardia) e al CNCA, all’Associazione di Comunità Terapeutiche Mito&Realtà.
Uno sguardo sull’oggi
Rispetto agli anni ’80 e ’90, il fenomeno delle dipendenze si è estremamente modificato: nuove sostanze psicoattive, di cui ancora non si conoscono completamente gli effetti, sono state immesse nel mercato; sono cambiati gli stili di consumo; sono subentrate nuove dipendenze, anche di tipo comportamentale, come quella da gioco d’azzardo patologico, di cui il CeAS si occupa da anni; è aumentata l’area del primo contatto con il mondo delle sostanze e i consumi, anche problematici, spesso convivono e sostengono la normalità dei percorsi esistenziali di molte persone.
«La tossicodipendenza è definita dall’OMS come patologia cronica recidivante. È quindi un fenomeno con cui la persona deve e dovrà confrontarsi sempre. L’obiettivo del nostro lavoro è di aiutare l’ospite a comprendere quanto la guarigione passi attraverso questa consapevolezza. Da qui deriva il potere che la persona può esercitare su di sé e per sé. Noi crediamo sia necessaria una visione “olistica” della salute, definita non come assenza di malattia, ma come uno stato di benessere fisico, mentale e sociale», dice ancora Graziano.
L’impatto della pandemia sulle dipendenze
Per il CeAS, quindi, l’intervento sulle dipendenze deve necessariamente essere inserito in un approccio di sistema che prevede la prevenzione, la cura e il trattamento, il reinserimento sociale, la riduzione del danno e dei rischi, l’aggancio precoce. In linea generale, condividiamo la “politica dei quattro pilastri”. Così è stata chiamata in varie parti d’Europa una strategia articolata basata su: prevenzione, cura e riabilitazione, riduzione del danno, lotta al narcotraffico. L’aspetto fondamentale è che questi pilastri siano in continua connessione e dialogo; non è funzionale ragionare in una logica di frammentazione.
A influire sul fenomeno, inoltre, è arrivata nell’ultimo anno anche la pandemia di Covid. A causa delle limitazioni alla vita sociale, da una parte, le persone a rischio di grave emarginazione sono ancora più sole. Dall’altra, la vicinanza forzata e prolungata nei nuclei familiari ha reso più difficile la convivenza nei casi di situazioni conflittuali. Per quel che riguarda le strutture di accoglienza, poi, le regole di distanziamento per impedire il diffondersi del Covid, stanno condizionando non poco la vita di comunità, che ha subito cambiamenti – dai momenti di gruppo ai percorsi di reiserimento – comportando notevoli fatiche per gli ospiti, la cui quotidianità è stata stravolta, ma anche per gli operatori, che hanno dovuto ripensare il loro lavoro.
Un richiamo alle istituzioni
In un contesto di complessità crescente, il privato sociale cerca dunque di mettersi sempre in discussione e di modellare il suo intervento sui bisogni emergenti. Ma la politica è ancora una volta assente, affidando una sorta di delega generalizzata agli addetti ai lavori, che, sia nel pubblico sia nel privato sociale, sono sempre meno e sempre più soli.
«Le droghe sono sempre più diffuse e si evolvono con una rapidità straordinaria, a fronte invece di un sistema di contrasto fossilizzato e arretrato. Come previsto dal Testo Unico 309/90, ogni tre anni si dovrebbe svolgere una Conferenza nazionale sulle droghe, con l’obiettivo di stimolare il confronto e la riflessione condivisa, utile per la programmazione delle politiche contro le droghe. L’ultima conferenza si è invece tenuta nel 2009, e quindi da troppi anni manca la programmazione e lo sviluppo di linee politiche per affrontare il problema. Peraltro anche il Testo Unico 309/90 risulta ormai datato e necessiterebbe di una revisione», spiega Claudia Polli.
Infine, oltre che a livello nazionale, si dovrebbe agire anche a livello locale, promuovendo sempre più, come avvenuto per boschetto di Rogoredo, interventi integrati che coinvolgano le diverse istituzioni locali e gli enti del privato sociale.