Storie

Ciò che manca nelle valigie dei profughi

Negli anni la Casa ha ospitato profughi di vari paesi. A pesare nelle loro valigie è ciò che si sono lasciati alle spalle.

Nel 2014 erano stati i siriani, in fuga dalla guerra civile. Nel 2021 è stata la volta degli afghani, scappati da un paese dove nel giro di pochi giorni è crollato il governo e i talebani sono ritornati al potere. Nel 2022 sono state poi le donne ucraine arrivate con i loro i figli. E infine, quest’anno, ci sono le famiglie palestinesi, quelle poche che sono riuscite a lasciare devastazione in corso nella Striscia di Gaza.

Nella storia della Casa della Carità sono state tante le esperienze di accoglienza di persone scappate dal loro paese a causa di guerre e violenze. Persone che nel giro di pochi giorni hanno dovuto abbandonare la loro casa, portandosi dietro le poche cose che riuscivano a mettere in valigia, il più delle volte nient’altro che uno zainetto, per una fuga precipitosa.

A pesare, in quelle valigie, non è tanto ciò che queste persone hanno portato con sé, quanto piuttosto ciò che hanno lasciato alle loro spalle.

Le vite interrotte dei profughi afghani

Per Zamzama, oggi 20enne, scappata da Kabul nel 2021 con i soli vestiti che aveva addosso e accolta per un paio d’anni alla Casa della Carità, sono state le amiche e i libri di scuola. Per Sadia, anche lei afghana, è stato il futuro da ostetrica che stava prendendo forma terminati gli studi e che ha dovuto abbandonare. Per i coniugi Safiullah e Parisa è stata una carriera avviata – da ingegnere per lui e da docente all’università per lei – che una volta arrivati in Italia si è bloccata per le difficoltà nel riconoscimento del loro titolo di studio, costringendoli a fare nuovamente le valigie per cercare un futuro negli Stati Uniti.

Famiglie spezzate

Da Gaza nei mesi scorsi è invece arrivata la 30enne Tayeb, con i figli di 2, 4 e 6 anni e la mamma, arrivate a Milano per ricevere cure mediche urgenti, visto che, a seguito dei bombardamenti israeliani, la casa gli è letteralmente crollata addosso. «Tayeb non esprime la sua sofferenza in modo diretto, però ce la fa capire. Per esempio quando parliamo e ci racconta che a Gaza sono rimasti senza cibo e senz’acqua, o dai video e dalle foto che ci mostra, capiamo che per lei è molto forte la mancanza del marito, che non ha potuto lasciare la Striscia e anche le bambine, seppur modo diverso, riportano la mancanza del papà, perché lo sentono, sanno che lui è ancora lì, ma non sanno quando lo rivedranno», spiega Fatmah Mohamed, operatrice del progetto SAI (Sistema di Accoglienza e Integrazione) della Casa della Carità.

Anche per le donne ucraine a pesare è aver lasciato i mariti, che in molti casi combattono al fronte, anche se «la maggior parte delle ospiti ucraine non ha vissuto la guerra direttamente sulla loro pelle, perché sono scappate quando sono iniziati i primi bombardamenti, perché il pensiero è stato quello di mettere in salvo i loro figli», afferma la mediatrice Krystina Kostin.

Per tante, però, c’è il rimorso di essersi lasciate convincere a partire. Dice ancora Krystina: «Le nostre, la maggioranza, stavano molto bene in Ucraina, ma di un punto in bianco sono dovute andare via senza niente e iniziare tutto da capo. Alcune sono stanche e sentono che qui è tutto sulle loro spalle, devono correre, devono pensare ai figli da sole. C’è chi ha trovato posto in un buon luogo d’accoglienza come il nostro, ma la maggioranza delle ucraine hanno dovuto arrangiarsi per conto loro da parenti, in affitto o sono tornate in Ucraina poiché qui non potevano permettersi una casa o non sono state collocate in un centro d’accoglienza. Per tutte è una situazione molto pesante».

Una valigia piena di interrogativi

Tra le donne ospiti del progetto SAI c’è anche chi non è scappata dalla guerra, ma da una situazione di violenza, come Ana, arrivata da El Salvador con i suoi tre figli. «Ana è scappata da una situazione di abusi domestici, che si sommava a una situazione di violenza generalizzata nel paese. La sua una è una valigia piena di interrogativi, soprattutto perché i figli non sanno tutto del perché sono arrivati in Italia», racconta l’operatrice del progetto Elena Marchesi.

[In apertura: una famiglia arrivata dall’Ucraina nel 2022]


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