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Quando a fare una casa è la relazione

Da sempre la Casa della Carità mette al centro del suo lavoro la costruzione di legami con le persone. Com’è nata questa vocazione? Ne parliamo con Laura Arduini.

Avere una casa in cui vivere è una condizione necessaria al benessere psicofisico della persona, ma non sufficiente per stare veramente bene, se allo stesso tempo nella propria vita non si hanno delle buone relazioni. Di questo è da sempre convinta la Casa della Carità, che mette la relazione al centro della sua azione sociale. Ma da dove deriva questa vocazione alla costruzione e al mantenimento di legami?

Ne abbiamo parlato con Laura Arduini, psichiatra, responsabile del Settore Salute e storica operatrice della Casa. «Che avere una casa non sia sufficiente per stare bene – dice – lo abbiamo imparato da tre elementi: in primis l’esperienza del progetto Proviamociassieme, partito prima ancora della nascita di Casa della Carità, quando don Virginio era direttore di Caritas Ambrosiana. C’è poi una base teorica, secondo cui a volte l’abitazione diventa una proiezione esterna di fantasmi interni; per esempio la casa di una persona depressa è spesso trasandata, quella di una persona psicotica magari è sottosopra… perché spesso si entra talmente in sintonia con il luogo in cui si vive, che questo ti rispecchia anche nelle tue parti più problematiche. E infine, c’è l’esperienza con tutte le persone ospiti che siamo riusciti ad accompagnare in questi anni e dall’avere riletto quelle che noi credevamo delle vittorie, come la conquista di una casa popolare, come invece un momento che a volte è critico».

Proviamociassieme

Proviamociassieme è un progetto di sostegno all’abitare autonomo di persone con fragilità psichica, nato nel 2000 nel quartiere Molise Calvairate e poi portato avanti negli anni dalla Casa della Carità. Spiega Laura: «Il progetto è nato perché in quell’anno, nel giro di poco tempo, nel quartiere erano state trovate senza vita, sommerse dai rifiuti che avevano accumulato, due persone con disagio psichico che vivevano sole. In quel quartiere, infatti, gran parte degli alloggi Aler erano stati assegnati a persone con patologia psichiatrica, che così avevano sì avuto una casa, ma che nella casa si erano chiuse, in condizioni igieniche disastrose, senza avere più rapporti con nessuno e senza più nemmeno frequentare il CPS (Centro Psico Sociale)».

Proviamociassieme parte dunque da una convinzione: la sofferenza mentale prolifica laddove alla periferia urbana si sovrappone una periferia sociale, dove i legami sono labili, provocando isolamento e chiusura. Obiettivo del progetto è quindi lenire questa sofferenza, ricreando connessioni e promuovendo scambio e conoscenza tra le persone e tra i soggetti, formali e informali, del territorio.

Come dice Alessandra, che dal 2014 frequenta Proviamociassieme, «Questo è un punto di riferimento, perché sai che qui ci sono persone che ti conoscono bene professionalmente, perché conoscono la tua storia clinica, ma anche umanamente».

L’esperienza con gli ospiti della Casa

L’esperienza con le persone ospiti della Casa ci ha insegnato che raggiungere l’obiettivo dell’autonomia abitativa non è sempre una vittoria, soprattutto per le persone particolarmente fragili. Lo si capisce bene dalle due storie che Laura ci racconta.

Quella di Eugenio, uno storico ex ospite, che da quando è nato ha sempre vissuto in istituzioni: in orfanotrofio e poi in comunità quando ha compiuto 18 anni; in comunità di recupero per alcolisti e poi in quelle per senza dimora. «Quando noi lo abbiamo conosciuto, aveva già più di 50 anni e non aveva mai vissuto in una casa. Dopo un po’ di anni qui ha ottenuto un alloggio popolare e sembrava un grande traguardo. Invece lui è stato malissimo, perché ci sono persone che, per patologia o isolamento sociale, non riescono a costruirsi una rete di contatti e quindi la casa diventa una sorta di guscio protettivo: non escono più, non si lavano più ecc».

C’è poi il contesto di una grande città come Milano, che spesso porta all’isolamento e non aiuta: spinto da operatrici e operatori, Eugenio ha fatto lo sforzo di bussare ai vicini di casa, ma la loro porta non si è mai aperta. «In questi casi penso che il grande aiuto che dà Casa della Carità sia quello di essere una “residenza affettiva” per tante persone, che ancora noi seguiamo se hanno bisogno», commenta.

L’altra storia che ci racconta la dottoressa Arduini è quella di Yamal ed è altrettanto sintomatica di come avere una casa non basti a stare bene, se oltre a relazioni che mancano ci sono anche dei servizi che non funzionano e che non riescono a prendersi cura di persone sofferenti. Yamal, arrivato alla Casa con gravi problemi psichici, era riuscito a stabilizzarsi dal punto di vista clinico, facendo un percorso virtuoso: era andato a vivere in comunità e poi in residenzialità leggera, aveva trovato un lavoro a tempo indeterminato e gli era stata assegnata una casa popolare. Sembrava il massimo. «Peccato – dice Laura – che una volta solo, ha smesso di prendere le medicine e non è stato seguito dal CPS. Questo perché la residenzialità leggera era in una zona di Milano e la casa in un’altra e questo ha significato per lui passare da un CPS all’altro. Al nuovo CPS non è mai andato e loro non l’hanno mai cercato. Lui ha ricominciato a stare male fino a bruciare l’appartamento, ha perso la casa e il lavoro e ora vive nuovamente per strada, dove abbiamo ricominciato a seguirlo».

Alla solitudine di Yamal si è quindi aggiunto un servizio pubblico di cura frammentato e non funzionante: «È vero che se cambi residenza cambi CPS, ma non dovrebbe venir meno l’attenzione di capire se il nuovo centro si è attivato per prendere in carica una persona che tu avevi seguito per molto tempo. Manca una continuità nella presa in carico e quella logica che alla Casa chiamiamo “andare verso”, cioè andare incontro a coloro che sono così fragili che non riescono nemmeno a chiedere di essere aiutati».

Come lavora la Casa

La Casa della Carità lavora per preparare l’autonomia di tutte le persone ospiti, in particolare quelle con problemi di salute mentale, e per costruire una rete nel territorio dove andranno a vivere una volta uscite da via Brambilla.

«Quando qualcuno deve andare in appartamento, seguito dalla nostra infermiera inizia a prepararsi le terapie da solo, impara a fare i conti di quante medicine deve prendere e quando ordinarle… ecc e poi quando va in appartamento, per un certo periodo torna qui per preparare le medicine o prenotare le visite, finché non è autonomo», spiega Laura.

E aggiunge: «Quando poi è assegnata la casa popolare in un certo quartiere, operatrici e operatori incontrano i servizi sociali di zona o, se sono presenti nel condominio, i custodi sociali. Si cerca quindi di attivare tutte le reti possibili, per far sì che la persona non passi da uno spazio pieno di attenzioni, al vuoto di casa propria».


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