Abbiamo chiesto a Bendetto Saraceno, psichiatra allievo di Basaglia, che ha messo al centro del suo lavoro la deistituzionalizzazione, una riflessione sulla tendenza alla repressione per rispondere alle complessità del presente.
Benedetto Saraceno, psichiatra, professore di Global Health alla Università di Lisbona appartiene al movimento della psichiatria anti-istituzionale italiana. Da sempre si occupa di approfondire i fenomeni della sofferenza urbana e, richiamandosi all’esperienza con Franco Basaglia, alla cui scuola si è formato, mette al centro della sua riflessione la cultura della deistituzionalizzazione. Questa esperienza l’ha portata anche all’interno della Casa della Carità, con cui ha collaborato per molti anni, dando vita e guidando il Centro Studi SOUQ.
A lui abbiamo chiesto un’analisi sulla tendenza, che vediamo rafforzarsi sempre di più, ad affrontare i problemi complessi delle nostre società in modo repressivo a scapito dei più fragili e delle fasce più deboli della popolazione.
Perché, a suo giudizio, di fronte a certi fenomeni, come il disagio giovanile, l’immigrazione, la salute mentale, il consumo di sostanze ecc., si riemergendo una risposta contenitiva, una nuova “istituzionalizzazione”, che per esempio si esprime nella creazione di nuovi reati, nell’aumento delle pene detentive, nella spinta a costruire strutture dove rinchiudere i migranti, nel massiccio utilizzo di psicofarmaci nelle carceri?
Il bisogno di risposte contentive, il bisogno di istituzionalizzare la differenza e la sofferenza psicosociale esprimono il grado di fragilità morale di una società. Società davvero fondate sulla certezza del diritto, costruite per il bene pubblico e la giustizia, non hanno bisogno di reprimere e contenere il dissenso, la diversità e la devianza perché sono sufficientemente forti e mature da potere dialogare, tollerare, includere.
La brutalità culturale, morale e politica del presente si esprime anche rispondendo con brutalità alle domande complesse che ogni società complessa deve naturalmente produrre.
È una tendenza solo italiana o è diffusa anche altrove?
Purtroppo è in atto oggi una regressione politica e morale che porta con sé nuove forme di oppressione, repressione e contenzione in tutta Europa.
Nell’anno del centenario dalla nascita di Franco Basaglia, lei che ne è stato allievo, che cosa rimane della sua rivoluzione?
Rimane la chiara idea che il manicomio non è la risposta alla sofferenza e alla disabilità. E non si tratta solo del manicomio, che la Legge 180 ha definitivamente chiuso, ma della cultura manicomiale insita in ogni istituzione oppressiva e contentiva che impedisce la emancipazione dei soggetti.
Se dovessi spiegare a un giovane di oggi perché Basaglia gli è necessario se vuole cambiare il mondo in meglio, gli direi che Franco Basaglia è uno dei pochissimi intellettuali che fonda il proprio impegno politico non su un pragmatismo contingente, ma su una visione morale e politica del mondo e della società e che, di converso, fonda la propria visione del mondo e della società sulla indispensabile necessità di uno sguardo/azione, che sono politica. Basaglia è uno dei pochi intellettuali che abbia esercitato allo stesso tempo la propria funzione di analisi e comprensione della realtà e la propria capacità di trasformazione della medesima attraverso il ruolo di tecnico critico.
Il centro del pensiero basagliano risiede nella “deistituzionalizzazione”, è ancora una lezione attuale?
La deistituzionalizzazione inventata da Basaglia rimane ancora oggi uno strumento di analisi critica della società presente e uno strumento politico di crescita, autodeterminazione e liberazione. E va ben oltre il manicomio. Oggi abbiamo servizi di diagnosi e cura ospedalieri miseri e violenti tanto quanto lo erano le accettazioni dei manicomi, oggi abbiamo forme diverse di residenzialità che riproducono istituzioni isolate dal mondo circostante, prive di progettualità, dense di norme istituzionali, povere e non dissimili da istituzioni totali, anche se pretendono di essere luoghi di riabilitazione, mentre non sono che spazi di intrattenimento.
Due sono i nodi fondanti della istituzione manicomiale che vengono sistematicamente riprodotti all’infuori di essa, mostrando così come la decostruzione necessaria debba andare ben oltre i muri dell’ospedale:
- la violenza sul corpo (e le morti e le contenzioni sistematiche nei servizi di diagnosi e cura ne sono testimonianza)
- la pratica dell’intrattenimento spacciata come riabilitazione (e la vita quotidiana senza scopo, senza speranza e senza vita delle strutture residenziali ne è testimonianza)
Come si esce da questo circolo vizioso?
Con l’ottimismo militante di Basaglia, che ci insegna che dobbiamo riappropriarci dell’esercizio del conflitto e costituire un fronte di conflittività intransigente. Dobbiamo, dunque, mobilitare conflitti sui temi vicini alla vita quotidiana delle persone e delle comunità più deprivate, marginalizzate e private di diritti.
Il coraggio di Basaglia permette di esigere e realizzare l’impossibile che diventa possibile. Esigere e realizzare non una società senza diversi, ma una società diversa. Una società dove le identità si fanno deboli per dare luogo a una cittadinanza diffusa. Una società permeata da un senso forte di cittadinanza.
La cittadinanza è la certezza del diritto, è un corpo di garanzie, di istituzioni riformate e in permanente trasformazione che definiscono, o dovrebbero definire, una nuova etica, secondo cui tutti i soggetti in quanto tali hanno diritto ad accedere alle risposte appropriate ai loro bisogni. Cittadinanza è accesso alle opportunità lavorative, ai servizi sanitari, alla casa, ma anche all’ascolto, all’accoglienza, allo scambio. Quindi è certezza del diritto, ma anche tenerezza dell’umano.