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Piccoli scarti. Bambini e ragazzi come residui del mondo – di Raffaele Mantegazza

Piccoli scarti. Bambini e ragazzi come residui del mondo – di Raffaele Mantegazza

Docente di Pedagogia interculturale all’Università degli Studi di Milano Bicocca

[I bambini] si sentono irresistibilmente attratti  dal residuo, che si tratti di quello che si forma nel lavoro del muratore, del giardiniere o del falegname, del sarto o di qualunque altro. In questi prodotti di scarto essi riconoscono il volto che il mondo delle cose rivolge a loro e soltanto a loro. (…) Essi mettono in rapporto tra loro questo materiale di scarto in modi nuovi e imprevedibili (…) si formano il loro mondo di cose, un piccolo mondo nel grande.

Walter Benjamin

Tra i bambini 1 e lo scarto c’è un’affinità elettiva. Basta avere osservato un gruppo di bambini o di ragazzini in mezzo ai materiali scartati da una falegnameria per capire che una sorta di campo di energie si attiva in quella situazione; energie che danno luogo a configurazioni inedite non solo per quanto riguarda i materiali (il pezzo di legno che diventa giocattolo) ma i bambini stessi, che diventano creatori, poeti e costruttori del nuovo. L’infanzia e l’adolescenza sono il regno dello scarto, perché riscattano gli oggetti dalla sottomissione al loro valore d’uso: il manico di scopa non serve più a pulire il pavimento e dunque è libero per le interpretazioni potenzialmente infinite che il gioco – come il sogno e l’arte – gli attribuiscono. La creatività, intesa come liberazione dell’oggetto dalla sua funzione, si gioca sempre in questi spazi e tempi marginali. “La preoccupazione spasmodica di produrre oggetti che siano adatti ai bambini (…) non si avvede che la terra è piena di materie pure, non adulterate, tali da attirare su di sé l’attenzione dei bambini”2.

Ma i bambini sono anche scarto: sono messi al margine da una società sempre più aggressivamente acquisitiva e se condividono coi vecchi questo spazio di marginalità, devono però subire le pressioni di un modello educativo sempre più teso a sacrificare l’infanzia imponendole fin dalla nascita un modello adulto intollerabile e sempre più alienante. L’anziano è semplicemente marginalizzato, mentre del bambino si vuole fare il futuro consumista, e dunque non c’è tempo da perdere. Le procedure di addestramento devono iniziare nella primissima infanzia. 

Anzi, è proprio l’esperienza di riscatto degli scarti del mondo adulto che i bambini mettono nel gioco ad essere mal tollerata da quest’ultimo e dunque ad essere marginalizzata. Un’infanzia che si vede proporre giochi sempre più costosi, perfetti e simili agli oggetti adulti, come un’infanzia alla quale il gioco non è permesso perché sfruttata o falcidiata dalla miseria, è un’infanzia alla quale è negata un’esperienza vitale.

Nonostante si ripeta che il XX  secolo è stato il secolo dell’infanzia (e nonostante i progressi innegabili nella sensibilità adulta nei riguardi dei bambini e degli adolescenti, esemplificato da quello straordinario documento che è la Convenzione internazionale dei diritti dell’Infanzia) sembra che il rispetto reale per la specificità di questa età della vita sia ancora una meta lontana. I bambini sono ancora le vittime più numerose delle guerre e delle carestie mentre nel mondo opulento a essere minacciata è la serenità della loro crescita quando non addirittura il loro equilibrio psicofisico. A essere minacciate sono le coordinate esistenziali del loro essere nel mondo: il tempo, lo spazio, il corpo oltre a quell’esperienza specifica che è il gioco.


1 – Perfettamente consapevoli delle legittime critiche al linguaggio di genere, ma perplessi rispetto alle soluzioni proposte, scegliamo esplicitamente di usare il maschile come espressione generica.
2 – Walter Beniamin, Orbis Pictus, Milano, Emme, 1981, pag. 43

Ladri di tempo

I bambini e i ragazzi vivono in dimensioni temporali differenti da quelle adulte: sembrano un esempio vivente della teoria della relatività, così elegantemente evocata da film come Interstellar. Il tempo dell’infanzia e dell’adolescenza scorrono a velocità diverse da quello adulto: spesso rallentato il primo, improvvisamente accelerato il secondo, oltretutto con una accelerazione differente per diverse parti del corpo e diversi compiti di sviluppo. Ognuno di noi ha esperienza di un bambino per il quale la frase “ancora cinque minuti” di gioco significa qualcosa di molto differente dai trecento secondi misurati dell’orologio: è il tempo del gioco ad essere vissuto, e non calcolato, dal bambino.

La lentezza dei tempi dei bambini è legata al loro bisogno di assaporare le esperienze, bisogno tipico dell’essere umano quando incontra il nuovo. Spesso ci si dimentica che per i bambini tutto è nuovo, che ciascuno di loro è un nuovo arrivato nella storia millenaria del nostro pianeta. Non diamo abbastanza importanza alla parola “neo-nato”: dopo quindici miliardi di anni l’Universo assiste stupito a una nuova vita, incomparabile e irriducibile a quelle che l’hanno preceduta. Una nuova esperienza deve avere il tempo di sedimentarsi in ogni fibra dell’essere umano; “l’amore occupa i capillari molto lento/mediando la ragione con un nuovo sentimento3; per questo motivo l’affastellarsi inutile e dannoso di sempre nuove attività e di sempre nuovi contenuti disorienta i bambini, diminuisce la qualità del loro apprendimento e della loro crescita, proponendo un modello orizzontale di accumulo delle conoscenze, piuttosto che una dimensione verticale di approfondimento (sia verso il basso che verso l’alto).

Il furto di tempo ai danni dei bambini e dei ragazzi non consiste solo nel riempimento totale delle loro giornate con mille attività, che durante la pandemia si è potuto constatare a partire dagli spazi vuoti che si sono creati: è anche la qualità del tempo dell’infanzia e dell’adolescenza ad essere in gioco. Ogni istante dei tempi di vita dei bambini e dei ragazzi deve essere infatti capitalizzato e sottoposto a programmazione e a valutazione; scompare l’esperienza del tempo vuoto e con essa la capacità di tollerare la noia. Il tempo dei bambini e dei ragazzi assomiglia sempre più a quello dei loro genitori, sottoposto come questo alla pressione dell’utile, del funzionale, del produttivo. Si valuta tutto; dai momenti di studio, che devono sempre riguardare argomenti e contenuti utili al mercato, al tempo libero, che deve sollecitare la competitività portata all’estremo, ai tempi del gioco, dei quali parleremo meglio più avanti. Si valuta anche il sonno, che stando alle ricerche dei pediatri è sempre più scarso quantitativamente, perché dormendo non si produce, a meno che non si indossino le cuffiette che insegnano l’inglese a livello subcorticale, ottima metafora di una pedagogia del riempimento e dell’invasione di tutti gli spazi vitali del soggetto. 

La nostra epoca è stata definita “capitalismo temporale”: e il tempo dei bambini e dei ragazzi, nel suo essere tempo inutile, tempo perso e improduttivo, viene scartato da una società sempre più tesa a marginalizzare tutto ciò che non crea profitto. 

A dare un’ulteriore caratterizzazione a questo vero e proprio furto di tempo è la temporalità delle nuove tecnologie, tutte schiacciate sul presente; o meglio, dal momento che, come intuì Agostino, il presente richiede un passato e un futuro rispetto ai quali creare una continuità (nella memoria o nella speranza), tutte appiattite su un non-tempo, immobilizzato nell’illusorietà del “tempo reale”. Ai ragazzi dunque si chiede di non perdere tempo, eliminando così la specificità dell’esperienza temporale propria dell’infanzia e si offre loro in cambio un tempo falso, fittizio, sarcasticamente definito “tempo reale”.


 3 – E. Ruggeri, Rien ne va plus dall’album Enrico VIII/Difesa francese, 1986

Dove mettiamo i bambini?

Gli spazi dell’infanzia ritornano nella memoria alterati e rimpiccioliti; è esperienza di molti il ritorno dopo tanti anni in uno spazio emotivamente vissuto da bambini e la percezione del cambiamento, del rattrappimento della dimensione spaziale. Mai come nell’infanzia e nell’adolescenza è letteralmente vero che la nostra percezione dello spazio non può che essere affettivizzata; lo spazio è uno spazio vissuto, analogo al tempo vissuto bergsoniano. Questo investimento affettivo, però, troppo spesso viene depurato: nelle nostre scuole si propongono ai ragazzi spazi apparentemente neutri, spazi che non possono essere abitati da una sensibilità ed è una affettività individuale.

Gli spazi pensati per l’infanzia sono ben che vada finalizzati a scopi adulti; mancano gli spazi liberi, soprattutto all’aperto, che possano essere reinventati e reinterpretati dalla sensibilità dei bambini e dei ragazzi. La saturazione del tempo della quale abbiamo parlato sopra sembra portare a un riempimento degli spazi: il problema è dove mettere i bambini, dove collocare i ragazzi, non come offrire loro la possibilità di spazi ampi e ariosi così come spazi nascosti e misteriosi dentro i quali far vivere la loro capacità di ritagliarsi l’ambito del gioco e della crescita (e anche del segreto).

Lo spazio del confronto è spesso negato; basti pensare al fenomeno dell’esodo dei bambini di origini italiane dalle scuole nelle quali sono accolti bambini stranieri: le famiglie di origine italiana fuggono letteralmente verso scuole monoculturali, riproducendo l’incubo delle scuole judenfrei della Germania nazista e proponendo lo stesso modello razzista e desolidarizzante. Un noto liceo ha scritto due anni fa nel documento di autovalutazione che l’assenza di alunni stranieri e di allievi con disabilità permetteva una maggiore efficacia dell’apprendimento: un’atrocità pedagogica che rende conto di come vengono pensati gli spazi dell’educazione, abitati solamente da “normali”, qualunque cosa significhi questa parola.

L’infanzia e l’adolescenza hanno bisogno di spazi di fuga, di spazi nei quali giocare liberamente le loro dinamiche, al riparo dallo sguardo dell’adulto. I ragazzi invece si vedono proporre spazi di controllo, anche poliziesco, giardini condominiali nei quali il gioco è vietato fino alle 16 (al Nord d’inverno alle 16 è notte!), piazze nelle quali è vietato il pericoloso e sovversivo gioco del pallone; e poi telecamere, scuole nelle quali si entra strisciando il badge in modo che sullo smartphone del papà compaia l’avviso di entrata in classe; uno spazio claustrofobico del controllo totale che sembra non lasciare vie di fuga ai ragazzi e ai bambini.

Il corpo dei ragazzini

Osservando alcune attività educative viene difficile pensare che i ragazzi e i bambini siano veramente un corpo. Abbiamo usato il verbo “essere” perché siamo convinti che nessun essere umano “ha” un corpo, ma che ciascuno “è” un corpo; un corpo che cambia, che soffre, che gode, che si staglia sull’orizzonte della morte. E molto spesso nelle scuole nelle istituzioni educative (e più in generale in quelli che dovrebbero essere gli spazi di cura, basti pensare agli ospedali) i corpi sono costretti a non desiderare e non vedersi assecondare i loro desideri e spesso nemmeno i loro bisogni.

Spesso lo spazio della scuola non è nemmeno adatto all’apprendimento: aule piccole, laboratori mal attrezzati, ragazzi costretti a rimanere seduti a mezzo metro l’uno dall’altro; basti pensare all’improba impresa di riprogettazione delle aule alle quale ci ha costretto il covid, per capire quanto la progettazione delle aule non sia adatta alla convivenza di corpi di bambini o di adolescenti. Troppe scuole brutte, troppe scuole abbandonate, troppi spazi limitati alla lezione a scapito della socializzazione, dell’incontro, anche del nascondimento che è una delle caratteristiche tipiche del rapporto tra bambino o ragazzo e adulto. Spogliatoi non agibili, docce che non funzionano, bagni con le porte che non si chiudono: e poi parliamo di educazione alla privacy, di riscoperta del   pudore, di rispetto e di cura del proprio corpo. Quando si fanno vivere le persone in spazi brutti si comunica la loro marginalità; non solo la loro ma anche quella delle attività che dentro quegli spazi si svolgono. Negare alla scuola i fondi per la ristrutturazione dei suoi spazi significa comunicare il fatto che la si considera una istituzione di scarto.

I corpi dei bambini e dei ragazzi sono ovviamente presi di mira dalla pubblicità rapace e dall’industria della comunicazione che li utilizza per vendere prodotti a loro e ai loro genitori. Osservando le pubblicità che hanno come protagonisti bambini o ragazzi non si può fare a meno di vederci una pornografia, che non ha riferimenti sessuali (o almeno non sempre) ma che utilizza in modo assolutamente improprio le caratteristiche della corporeità dei più piccoli: la tenerezza, l’incompiutezza, l’elasticità del corpo dei bambini e dei ragazzi vengono manipolate a scopo commerciale. Purtroppo a tutto questo non sempre risponde un progetto pedagogico positivo che investa i corpi dei bambini e dei ragazzi di un’intenzionalità educativa.

Non possiamo non parlare dei corpi dei bambini sofferenti. Alla base di tutto c’è l’infanzia uccisa, schiavizzata, affamata, venduta che ancora è caratteristica di una buona parte della nostra esperienza del mondo. La pornografia infantile, i piccoli schiavi sessuali, i matrimoni combinati, le mutilazioni genitali femminili: se anche un solo bambino o una sola bambina subiranno ancora queste violenze non potremmo parlare di “secolo dell’infanzia”, anzi potremmo parlare di una cecità e di una complicità dell’Occidente rispetto a un’infanzia che sta soffrendo atrocemente a pochi passi da noi. Ma poi ci sono le sofferenze fisiche dell’infanzia più vicina a noi, quella del bambino o della bambina disabile, quella del bambino o della bambina ammalato, quella del bambino che viene picchiato, dal momento che ogni tanto si assiste a una legittimazione delle punizioni corporali che si maschera dietro la becera ipocrisia del “che cosa vuoi che sia uno schiaffo”, perché non si ha la voglia e il coraggio di cercare un modo diverso per educare i bambini e i ragazzi. “In fin dei conti si è sempre fatto così, mio padre me le ha date io le do a mio figlio”: questo è uno dei ragionamenti più stupidi che si possono ascoltare ma ha una forte presa su coloro che non sanno rivolgersi ai corpi dei bambini se non attraverso la violenza.

E ovviamente il tutto viene amplificato da quella sorta di discarica a cielo aperto che è il web, sul quale non serve andare nelle profondità del “deep” per vedere l’indecenza dei corpi infantili messi alla mercé degli immaginari adulti; e non siamo parlando solamente di foto di nudi o di corpi spogliati, ma di una mercificazione del corpo dell’infanzia che passa anche attraverso le foto delle feste di compleanno, dei piccolissimi appena nati, dello spogliatoio di calcio dopo la partita. Mettere sulla pubblica piazza la foto di un minore senza il suo consenso è una forma di violenza che solo la nostra epoca, malata di desensibilizzazione all’immagine, sofferente di una bulimia della presenza sul web, potrebbe ignorare. Mettere davanti alla propria casa un poster del proprio bambino di dieci anni in mutande; ecco, se si provasse a capire che pubblicare la stessa foto sul web ha un effetto diecimila volte peggiore di questo gesto, forse il rispetto per i corpi dell’infanzia diventerebbe effettivo.

Sul serio o per gioco?

Gli Stati parti riconoscono al fanciullo il diritto al riposo e al tempo libero, a dedicarsi al gioco e ad attività ricreative proprie della sua età e a partecipare liberamente alla vita culturale ed artistica. Gli Stati parti rispettano e favoriscono il diritto del fanciullo di partecipare pienamente alla vita culturale e artistica e incoraggiano l’organizzazione, in condizioni di uguaglianza, di mezzi appropriati di divertimento e di attività ricreative, artistiche e culturali.

Art. 31 della Convenzione dei diritti dell’infanzia

L’immensa letteratura psicologica e pedagogica sull’importanza, per non dire sulla necessità, del gioco per i bambini e le bambine che si è poi depositata in questo importantissimo articolo della Convenzione internazionale sembra non avere sfiorato l’interesse degli adulti e in particolare di chi si occupa di politica e di chi si occupa di infanzia. Gli spazi del gioco libero sono sostanzialmente assenti in molte città e anche quelli del gioco programmato, i parchi giochi, le aree dedicate ai bambini, sono sottoposti ad incuria e non sono certamente tra i primissimi obiettivi (e nemmeno i secondi o i terzi) di molte amministrazioni.

Francesco Tonucci parla della città dei bambini. Oggi si rischia di vivere in città che vengono progettate nonostante i bambini. Ricordiamo la prima poesia che abbiamo imparato a memoria da bambini, Signori architetti di Gianni Rodari: “Si gioca sui tetti nei vostri progetti?/Un pezzo di prato l’avete lasciato?”. E con la consueta saggezza, Rodari non chiede spazi attrezzati ma spazi liberi, da abitare con la anarchica fantasia dei bambini: “Lasciateci appena lo spazio che poi/a far l’altalena pensiamo da noi”.

Oggi è proprio nell’ambito del gioco che la fantasia e la creatività sono marginalizzate. Lo dimostrano i giocattoli sempre più simili alla realtà, i modellini di mitra che vengono scambiati per mitra reali, le partite di FIFA 2021 nelle quali non ci sono elementi che permettono di distinguere un vero incontro di calcio da qualche cosa di finto. L’abolizione del fragile velo tra realtà e finzione, che è tutela dello spazio dell’arte, del gioco, del teatro, viene esibita con orgoglio da aziende che producono giocattoli più veri del vero, annientando in questo modo il potere anarchico e creativo del gioco, distruggendo la creatività.

Giocare significa competere, vincere, e non per quel gusto del “vincere per niente” tipico di certe forme di gioco, ma per soldi, per la fama, per umiliare l’avversario, per essere migliore. Il gioco come esperienza fine a se stessa si vende a scopi politici o economici; tutto ruota attorno all’essere migliori degli altri, un essere migliori che immediatamente emigra dalla sfera protetta del gioco per spandersi come una materia collosa sul resto della vita. Così la vita diventa competizione e il gioco diventa feroce apprendistato per la vita competitiva, in un gorgo nel quale si perde del tutto la distinzione tra gioco e realtà.

Giocare per niente: questo è il vero senso del gioco come quello dell’arte ed è questa esperienza a venire attaccata nel mondo consumistico attuale. Non si fa niente per niente, e quel regno del tempo sprecato che secondo Rousseau è l’infanzia viene immediatamente asservito a questa logica della capitalizzazione di ogni istante e di ogni esperienza. Non si fa nulla per gioco, tutto deve essere sottoposto a una falsa serietà; falsa perché in realtà saper essere seri significa anche saper prendere la vita per gioco e sapersi gustare le esperienze apparentemente inutili o comunque non spendibili; il regno della stupidità ammaestrata non può capire il senso di “un po’ di leggerezza e di stupidità4” che chiedeva Battiato.


 4 – Franco Battiato, L’animale 

Proteggere l’infanzia e l’adolescenza

Così il compito che spetta agli adulti è proteggere l’esperienza dell’infanzia e dell’adolescenza che rischiano di scomparire dal campo dell’umano; il che non significa costruire una sorta di riserva all’interno della quale mantenere in vita una specie di infanzia artificiale. I bambini hanno bisogno di spazi e tempi tutti per loro ma anche di poter essere realmente cittadini e cittadine della nostra democrazia; di vivere da protagonisti gli spazi della città, del paese, della campagna.

L’infanzia non deve essere marginalizzata, ha bisogno certo di spazi sacri, separati, ma anche di poter permeare del suo entusiasmo, della sua elasticità, della sua verginità gli spazi degli adulti, dei vecchi, delle donne, dei migranti, delle persone disabili, di tutti coloro che circondano i bambini e che fanno sì che possano diventare adulti felici.

È possibile fare questo passo decisivo non dimenticando la propria infanzia. “Tutti i grandi sono stati bambini ma pochi di essi se ne ricordano”, dice il Piccolo Principe; ricordare la nostra infanzia significa riattivare quelle emozioni e quelle sensazioni che un determinato passaggio all’età adulta, non naturale e certamente non l’unico possibile, ha rischiato di farci dimenticare.

Togliere l’infanzia e l’adolescenza della marginalità è un gesto che dobbiamo fare anche in onore e in memoria del bambino e dell’adolescente che siamo stati. Siamo diventati grandi, ma non abbiamo dimenticato la bellezza dell’essere bambini e dell’essere ragazzi: noi non lo siamo più, ma siamo circondati dai bambini e dai ragazzi di oggi. Renderli marginali, renderli cose, renderli merci è un insulto prima di tutto a loro ma poi in secondo luogo anche a noi stessi e al bambino che eravamo. L’infanzia che è in noi e l’infanzia che abbiamo davanti agli occhi possono realizzare un’alleanza per liberare il bambino e il ragazzo dal ghetto della marginalizzazione.

[In apertura: immagine di Piron Guillaume su Unsplash]


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